Il direttore generale dello stabilimento italiano di una grande multinazionale, alla quale fornivo i miei servizi di consulenza organizzativa, era oberato di impegni, e di grane varie. Al punto che raramente riusciva a parlarmi per analizzare lo stato dell’arte dei miei interventi in azienda. Men che meno riusciva a confrontarsi con me sulla sua conduzione e le ipotesi gestionali, come avrebbe voluto, visto poi che venivo pagato per questo.
Così abbiamo scelto, e rinnovato più volte nel tempo, di rifugiarci nella hall di un grande albergo, tenendo tutti all’oscuro del recapito e ovviamente spegnendo i cellulari.
Eravamo così in un luogo dove lui non era il direttore generale; dove non venivamo interrotti; dove l’estraneità degli arredi lo privava degli ancoraggi abituali; dove l’urgenza di tempo non si faceva sentire; dove si poteva quasi giocare in un’atmosfera di incontro clandestino; dove una persona di passaggio diventava lo stimolo ad un’ipotesi diversa. Dove io stesso non gli dovevo più soluzioni ai problemi, ma al contrario stimoli senza soluzioni, in un rapporto che prendeva una piega diversa, ondeggiante.
Da consulente a coach. Per ore si accendeva un proficuo dialogo, inizialmente a ruota libera. Poi stava a me riportarlo mirato su temi e problematiche specifici, gestendo un’immaginaria agenda dell’incontro.
Il risultato era che, al ritorno in azienda, il suddetto direttore era animato da una grande vis pugnandi, un’energia incontenibile, e attivava molto rapidamente azioni e innovazioni. Frutto di un libero confronto sviluppato al riparo da tutto l’invasivo mondo esterno.