La politica di uscita in passato non ammetteva eccezioni, nonostante venisse svolta anche verso risorse assai critiche per l’organizzazione, la cui uscita era foriera di problemi e disagi. Senza pensare al capitale umano di esperienza e umanità che veniva a disperdersi. E’ così che Luigi F. Ventura contribuisce all’approfondimento che Brain Cooperation sta conducendo sul tema dell’active ageing, anche tramite un questionario diagnostico messo a disposizione dei lettori.
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L’affannarsi delle riflessioni organizzative, gestionali, psicologiche e sociologiche sul tema della gestione del personale over 55, trova una sua ragion d’essere nei profondi rivolgimenti in tema di previdenza, che hanno allontanato (e di molto) età e requisiti contributivi per l’ottenimento della pensione. Facendo uscire prepotentemente la riflessione sull’ ageing dai recinti del dibattito accademico, fino ai tavoli e nei corridoi delle Direzioni del Personale delle Aziende e ai contesti familiari di tutti quelli che sono coinvolti.
In realtà il tema è assai complesso, in quanto i lavoratori cosiddetti anziani si sentono soggetti a due riflessioni contraddittorie:
- da una parte si chiede loro di dare spazio ai giovani, quindi per quanto possibile, alleggerire i costi aziendali e consentire lo sviluppo di forze emergenti
- dall’altra di pensionarsi più tardi -in molti casi assai più tardi- per alleviare i costi economici e sociali della previdenza, peraltro con scarsa possibilità –allo stato- di scegliere un’uscita anticipata che non sia eccessivamente penalizzante.
La politica di uscita (almeno in alcuni momenti storici) non ammetteva o prevedeva eccezioni: chiunque era aggredibile. Devo ammettere che ciò non mi convinceva del tutto: l’azione veniva svolta anche verso risorse assai critiche per l’organizzazione, la cui uscita era foriera di problemi, disagi, o addirittura perdite economiche dirette o indirette. E certamente per diverse posizioni aziendali comportava un vero shock organizzativo, con affannose rincorse per sanare le singole situazioni. Senza pensare al capitale umano di esperienza e umanità che veniva a disperdersi …
Ogni azione di modifica organizzativa formativa e di ridisegno dei ruoli non può andare a scapito del livello retributivo posseduto, percepito ed atteso. Ovviamente non significa necessariamente aumentare il costo del lavoro, ma modularlo, ovvero far entrare nella mente dei decision maker aziendali che:
- le aziende sono obbligate a mantenere in organico tale categoria di risorse quasi inevitabilmente a lungo
- gli over 55 sono un valore per l’organizzazione, in termini di esperienza e network di relazioni, patrimonio di capacità e competenze
- la loro inazione o peggio controdipendenza può essere fonte di danni sia organizzativi che economici.
Non ritorno sulle ricette note riguardo reingegnerizzazione dei processi, riorganizzazione del lavoro, formazione, tutoring e mentoring, etc., che tutti – chi più chi meno – propongono e che sostanzialmente condivido. Intendo provare a parlare della loro sostanziale e reale applicabilità nelle aziende, almeno pensando a quelle che vedo e che ho visto nella mia vita professionale.
Intanto va analizzato chi è l’aged worker in azienda e quali comportamenti, valori e necessità lo caratterizzano. In azienda in genere si tratta di persone che hanno, oltre all’età elevata, una anzianità aziendale conseguentemente elevata, con un profondo background di conoscenza dell’azienda e un patrimonio di esperienze adeguato e ricco.
Hanno una retribuzione (e un conseguente tenore di vita) in genere pari al quartile più elevato del livello di appartenenza (indipendentemente se quadro, dirigente o impiegato). Hanno figli grandi, che salvo qualche caso fortunato, non sono ancora entrati nel mondo del lavoro (in cui comunque si entra purtroppo più tardi di una generazione fa), o se lo hanno fatto, hanno trovato solo “posti in piedi” (stage, rapporti a t.d., in nero. etc). Devono rimanere in azienda per forza ancora a lungo, (66-67 anni e forse più), e nessuno sembra loro offrire più i ricchi esodi di cui hanno sentito parlare, con malcelata invidia, solo fino a pochi anni fa.
Pertanto, il primo vero aspetto critico è la retribuzione. Ovvero, va effettuata una robusta, intelligente e variegata politica retributiva per l’age management, perché gli interessati possano essere convincentemente motivati a spostamenti nell’organizzazione, ai nuovi ruoli o a impegni di tutoring e mentoring.
Per approfondire:
Luigi V. Ventura, Aged workforce: una via mediterranea per le politiche HR
foto by Giulia Stazzi