Siamo all’analisi del secondo termine dell’acronimo SCARF enunciato da David Rock , quello che riguarda la certezza.
La neurofisiologia ci insegna che il nostro sistema cerebrale si crea, vive e si alimenta di continue contraddizioni e forze oppositive.
Gli studi sul funzionamento del cervello ci hanno permesso di riconoscere una ben precisa organizzazione cerebrale che presidia e amministra tutte le attività cognitive ed emotive dell’essere umano.
Ciò che costituisce strutturalmente l’attività cerebrale è la relazione tra due opposte strategie che fanno riferimento a diverse aree neuronali: quella tra le funzioni cerebrali automatizzate e inconsapevoli, radicate nelle aree subcorticali e quella delle funzioni cerebrali che producono consapevolezza e coscienza.
La dialettica è quindi tra le aree del cervello che agiscono in modalità involontaria e spontanea e quelle che agiscono attraverso il dubbio e l’analisi: due opposte aree cerebrali, localizzate in spazi neuronali diversi, ma anche profondamente connessi.
Perciò:
- da una parte nella zona prefrontale della corteccia è allocata la coscienza, con le sue possibilità di dubitare, approfondire, contraddire, affrontare la fatica dell’incertezza,
- all’opposto sono le restanti strutture del cervello, corticali e subcorticali che si oppongono all’incertezza cercando semplificazione e sicurezza.
Questa parte del cervello, opposta alla coscienza, è pigra, paurosa, abitudinaria predisposta al comportamento automatico, priva di consapevolezza, utilizzando risposte all’ambiente standard, veloci e poco elaborate che sottendono al nostro bisogno di sicurezza, di certezza, di continuità statica, evitando ignoto e ambiguità.
Nello stato di spontaneità, quindi, il cervello vive una benefica e rassicurante condizione psicologica, con il minimo dispendio di energie, senza per nulla sentire la necessità di approfondimento, di ricerca del vero, di una coscienza vigile e dubitante che si crea solo con la consapevole e volontaria attivazione delle aree prefrontali.
Quindi il cervello nell’ipotesi di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo è sempre alla ricerca effimera di certezze, perché danno sicurezza e soprattutto fanno risparmiare energie.
E’ come viaggiare con il pilota automatico sempre innescato, e seguire un tracciato prestabilito, sicuro e assuefacente.
Certo, il bisogno di sicurezza è un’esigenza primaria dell’uomo: gli permette di riconoscersi all’interno di un contesto con un ruolo, una posizione sociale definita e confermata dall’ambiente.
E’ un bisogno fondamentale affinchè si possano creare relazioni soddisfacenti, e permette all’individuo di sentirsi appagato e motivato nell’ottemperare ai propri compiti vitali: la famiglia, la società, il lavoro.
E’ per questo motivo che le organizzazioni svolgono un ruolo chiave nel favorire:
- certezza
- ambiguità
- paura
- orientamento al rischio.
I reticoli organizzativi strutturati e incasellati ci costruiscono flussi mentali in cui è molto rassicurante vivere, cornici industriali in cui ognuno sa dove collocarsi, recinti fissi e conservativi.
E’ la passiva ricerca dell’assegnazione del nostro posto a sedere, come al cinema o a teatro, in posti già predisposti da una precisa disposizione.
Perciò mi chiedo: è sempre un bene alimentarsi di queste rassicurazioni? Gli automatismi che ci governano ci aiutano davvero ad essere più efficienti e performanti e si si, rispetto a cosa? all’esigenza di chi?
Come utilizza realmente un manager il tempo risparmiato dall’utilizzo delle strategie più veloci e certe nella valorizzazione di ciò che è e non solo di ciò che fa ed esibisce?
Non sarebbe più sfidante, talvolta, cercare di orientarsi anche nell’ignoto e nell’ambiguità cercando di non farsi condizionare troppo dalle dinamiche organizzative?
E’ vero, le aziende e i manager dovrebbero avere il compito di incoraggiare e sostenere una mission comune, creare condizioni positive affinchè ciascuno possa sentirsi parte produttiva ed efficiente dell’ingranaggio organizzativo.
Le organizzazioni vogliono depotenziare possibili distorsioni e incertezze, ma il rischio non è anche quello di creare culle sicure e ben delimitate in cui ciascuno preserva il proprio spazio vitale, si irrigidisce entro ad esso e perde qualsiasi altra spinta realizzativa?
Una nevrotizzazione delle persone (e del loro cervello!) che se, da un lato senz’altro è utile all’organizzazione che crea soldatini snaturati e programmati dall’altra si deve chiedere se questo fa parte di un processo evolutivo e costruttivo oppure infantilizzante.
E complementarmente: quanta retorica c’è nell’inneggiare all’innovazione come a una condizione permanente, fingendo di ignorare il costo emotivo che ha?
Per approfondimenti:
Salati E.- Leoni A.- Todisco N., La neuroleadership. Da capo a manager nelle relazioni umane, personale e lavoro, rivista di cultura delle risorse umane, Isper, novembre 2016
Salati E.- Leoni A., Neuroscienze e Management, Guerini Next, maggio 2015
Zapelli G., Formazione e apprendimenti: neuroni in cerca di cambiamento, Neuroscienza e Management, Guerini Next, maggio 2015