Nel 1950 Simone Weil, nel suo lavoro intitolato “Attesa di Dio” così scriveva:
“L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto” (AD 80).
Ho riletto questo testo recentemente, come ne rileggo altri, con una frequenza scadenzata. Quelli che reputo pietre miliari della mia vita e che mi piacerebbe offrire ad altri, rivestiti del medesimo orizzonte di senso.
Rifletto sul fatto che ogni strumento necessario di cui la nostra umanità sta cercando faticosamente di dotarsi negli ultimi anni, resta inevitabilmente destinato ad essere insufficiente, se non lo riconduciamo al suo valore di strumento e non di fine, di meta, di obiettivo.
E il fine, la meta, l’obiettivo a cui tendere non è il potenziamento delle capacità, l’implementazione della fascinazione e delle possibilità di risultare incantevoli, perfettamente performanti, abili parlatori e discreti ascoltatori, capaci di programmare bene e di gestire con accuratezza, tempi, persone, cose e abilità.
Ogni parte di noi deve tendere ad un obiettivo unico, che si articola e si prepara con l’ausilio di strumenti diversi, più o meno efficaci, più o meno approfonditi o studiati e provenienti da intuizioni spesso diverse o del tutto simili.
È necessario tornare a guardare la luna, non il dito che la indica.
E la luna è un’anima unitaria. Non più spezzata in molteplici parti, ma unificata verso una direzione, capace di realizzare un lavoro “d’un sol getto”.[1]
Solo così potremo realizzare quello stato che Simone Weil definisce di attenzione, quella capacità di sospendere il pensiero e il giudizio per permettere alle cose di accadere. Dare un respiro più ampio alle esigenze particolari alle quali i nostri strumenti provano a dare una risposta, riunire in uno sguardo unificato e unificatore i diversi rivoli delle nostre azioni formative e informative, spesso irriducibilmente in contrasto tra loro, incapaci di riposizionarsi in un unico orizzonte di senso.
Così ogni azione, ogni intervento è un intervento particolare, che se non inserito nel proprio sistema, difficilmente attuerà il cambiamento che vorremmo che attuasse.
E il sistema è l’essere umano; la sua mente capace di cambiare e di plasmare la realtà. Educarsi all’attenzione -come dice Simone Weil- è un compito primario, prioritario, al quale pochi si educano e pochi ci educano, ma dal quale dipende davvero la nostra capacità di generare benessere, in ogni contesto, personale o di lavoro.
Darsi il tempo per sentire ogni singolo aspetto di sé, dare il tempo al mondo di trovare uno spazio nella propria mente senza giudicare, senza fretta, rimanere permeabili e possibili, può significare diventare uomini capaci di generare azioni di un sol getto e dunque non solo precise, pensate, pesate. Ma anche e soprattutto giuste, dotate di sapienza e saggezza.[2]
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[1]Martin Buber, Il cammino dell’uomo, edizioni Qiqajon
[2]Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, Garzanti