Proponiamo questo articolo -pubblicato su Brain Cooperation da Giuseppe De Feo- come stimolo a chi fa coaching nelle aziende internazionali e multiculturali.
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La multiculturalità è un dato di fatto che descrive semplicemente la oggettiva compresenza di culture diverse entro una stessa società. L’interculturalità descrive invece uno specifico progetto di interazione all’interno delle società multiculturali. Le prime realtà sociali a favorire una progettazione sociale in questo significato sono state le imprese multinazionali. Le imprese – anche molte imprese italiane – hanno sperimentato nel tempo la crisi di identità legata alla perdita del carattere nazionale della propria cultura – il cosiddetto shock culturale – e, poi, l’assunzione di una nuova identità la cui caratteristica forte sta nel sapere far convivere e valorizzare le diverse culture presenti, accettando le diversità.
Nei casi della Omron, multinazionale con sede a Kyoto, della L’Oréal, della Nestlé, della PhilipMorris o della ABB, le prassi di queste aziende parlano di moltiplicazione, piuttosto che di minimizzazione, delle opportunità di differenziazione nazionale e culturale: mobilità e carriera internazionale come un pre-requisito per poter accedere a posizioni più elevate; comitati esecutivi ispirati alla multiculturalità; scambi, relocation, trasferimenti tra Paesi diversi, senza vivere le differenze come barriera e come vincolo.
Ma il caso Ericsson, nella sua visione della complessità, ci insegna ad allargare ulteriormente il concetto di interculturalità, sino a parlare di gestione della diversità, che nella sua ampia definizione comprende differenze core e personali come l’età, il genere, la razza/etnicità, la personalità e le credenze; differenze basate sull’esperienza come l’istruzione e il bagaglio di lavoro e funzionale; differenze situazionali come lo stato di famiglia; o organizzative, correlate alla funzione e al ruolo. Per ‘gestione della diversità’ si intende promuovere un ambiente dove le persone portino una varietà di retroterra, stili, prospettive, valori e credenze come patrimoni per i gruppi e le organizzazioni con cui interagiscono. All’interno dei valori centrali – professionalità, rispetto e perseveranza – la diversità si colloca al cuore del “rispetto”, enfatizzato come un punto di forza che fornisce pari opportunità. La gestione delle diversità migliora anche l’immagine aziendale e quella del datore di lavoro, e accresce l’attrattività della società tra gli attuali e i futuri stakeholders.
Come si vede nel grafico, i team interculturali ben gestiti da leader consapevoli sono quelli che danno risultati eccellenti, rispetto alla media dei team monoculturali e in modo decisamente superiore rispetto a team interculturali mal gestiti (senza consapevolezza delle dimensioni che, all’interno, li differenziano e li arricchiscono). Le aziende, in effetti, si dibattono in una polarizzazione tra due sistemi di valori opposti, che si traducono in politiche e in prassi quotidiane consolidate. Questa polarizzazione vede, ad un estremo, il valore della focalizzazione, che persegue – attraverso l’unità – la conformità agli standard e alle regole. All’altro polo possiamo interpretare i valori e le politiche di differenziazione che – attraverso la diversità – perseguono gli obiettivi di innovazione (di prodotto, di processo e di mercato).
La nostra ipotesi è che la maggior parte delle aziende italiane (ma non solo queste) si sentano tuttora legate al più antico modo di vivere l’impresa, al primo paradigma citato e tendano a interpretare ruoli da detentori pressoché esclusivi, più o meno arroganti, del potere insito nei processi di omogeneizzazione dei prodotti e dei processi.
A supporto di questa affermazione si possono riportare i risultati di molte indagini che hanno dimostrato come le aziende transnazionali puntino sempre molto sull’introduzione di piattaforme gestionali e tecnologiche omogeneizzanti per mettere in relazione società e stabilimenti di paesi tra loro lontani. Due studiosi statunitensi, Griffith e Neale, hanno però dimostrato come piattaforme informatiche e organizzative gestite da team virtuali non diano risultati soddisfacenti. E ciò soprattutto perché l’omogeneizzazione degli strumenti e la virtualità del lavoro di gruppo non sono adeguate per realizzare un utile confronto sulle diversità dei valori, il sistema forse più critico e delicato nel complesso del ventaglio delle diversità. In effetti, in tal modo le aziende ‘si condannano’ ad essere capaci di minori tassi di innovazione, dal momento che non sviluppano al loro interno alcuna innovazione sociale, alcun amalgama di culture e di modi di pensare differenti.
Per contro, uno studio del MIT di Boston, pubblicato su Science, ha mostrato quando diverse persone si uniscono per risolvere dei problemi si sviluppa un’intelligenza superiore, una sorta di super-mente sociale. A quanto pare, per funzionare al top questo super-cervello non ha tanto bisogno che tra gli individui ci siano diversi tratti in comune, quanto piuttosto che nel gruppo regni un’elevata sensibilità sociale.
“Dal nostro studio – sottolinea la Krienen del MIT – emerge chiaramente come la vicinanza sociale, o familiarità, si sia sviluppata nel cervello lungo circuiti di prima classe e sia il fattore principale di cui la mente si serve per interpretare gli altri”.
Potrebbero essere utile approfondite in maniera paradigmatica tre casi di aziende che abbiamo osservato e frequentato, le quali hanno sviluppato un approccio e delle policy per fare fronte alle tematiche della complessità.
Il progetto Columbus, avviato nel 2007 in Ansaldo STS (oggi Hitachi Rail STS), è stato una prima risposta per la diffusione di una più accentuata cultura internazionale. Esso nasce dall’esigenza di valorizzare le sinergie intragruppo tra le varie aziende. Da tali sinergie, infatti, possono nascere reali possibilità di scambio sia di know-how, attraverso progetti concreti, sia di tipo culturale, attraverso l’inserimento in contesti eterogenei. La realizzazione del progetto ha comportato una mappatura delle risorse interessate a progetti di tipo internazionale, corsi di formazione specifici dedicati a questa popolazione, individuazione di progetti specifici. La mobilità e l’impegno internazionale sono stati bilaterali: ossia si è previsto che risorse ASTS andassero presso i paesi stranieri e risorse estere presso ASTS. A tal fine è stata identificata una policy dedicata e si sono individuati dei tutor interni e dei tutor esteri. Durante la permanenza all’estero tutta l’attività svolta è stata monitorata da parte di HR e del tutor. Il programma di sviluppo si è articolato in tre moduli:
- La Gestione Efficace delle Differenze nei Contesti Interculturali, che si è incentrato sulla comprensione del fattore “opportunità” nell’esplorazione delle differenze culturali, attraverso l’approfondimento di quelle caratteristiche di ciascuna delle cultura rappresentate nel gruppo che possono costituire barriere alla comunicazione.
- Conversazioni Culturali per la discussione delle diverse culture-Paese, da diverse prospettive prospettive: istituzionale, sociologica, antropologica, politica ed economica.
- Piani d’Azione individuali che sono stati definiti come obiettivi di governo dei business aziendali, creando un collegamento strutturato tra esigenze personali di crescita e efficacia competitiva dell’azienda.
I soggetti coinvolti sono stati prevalentemente giovani: il 78% era costituito da persone tra i 30 e i 40 anni. Giovani che nel definire alcune caratteristiche culturali di quattro dei Paesi nei quali è presente Ansaldo STS (Italia, Francia, USA ed Australia), si trovano a marcare forti differenze, in particolare tra l’Italia e gli altri Stati. Il nostro Paese nella loro percezione si trova all’interno di un modello culturale più burocratico e meno aperto all’innovazione. Sentono, quindi, un contrasto forte tra la dimensione internazionale e di grande innovazione dell’azienda ed una realtà paese che sul piano culturale, come anche su quello del sistema economico, fa molta fatica a posizionarsi ai livelli di competitività necessari.
Questa percezione è confermata dall’esperienza di coloro che sono stati all’estero che alla domanda “Quanto l’organizzazione del lavoro, delle relazioni e degli spazi nell’azienda estera era diversa da quella italiana” hanno risposto: molto il 36%, abbastanza il 50%. Anche nei racconti di aula è emersa spesso questa diversità specie relazionale esistente negli altri paesi, che veniva anche molto apprezzata nella sua informalità che trova il suo massimo in Australia.
In BMW, parallelamente ai suoi traguardi nel campo della R&D, l’azienda ha fatto evolvere una strategia di corporate che riflettesse i suoi interessi globali. Ha chiamato questa strategia globale con il neologismo glocalization, laddove lo scopo è di realizzare la giusta combinazione di networking globale e di politiche locali. Per rendere effettivo il concetto di glocalization, BMW ha messo in campo un sistema formativo assolutamente unico. Al vertice di questo sistema c’è il Gruppo di Formazione per l’International Management, un Gruppo avviato addirittura nel lontano 1990, con differenti partecipanti ogni anno, e composto da 16 top manager da differenti Paesi, candidati a una promozione nell’ambito del Gruppo. L’obiettivo della Formazione per il Management Internazionale, è di assicurare che BMW pensi e agisca globalmente, anzitutto, ma anche, in secondo luogo, sia capace di lavorare all’interno del contesto di culture differenti.
ERICSSON ha elaborato una delle più ricche mappe concettuali della diversità, dimostrando un approccio orientato all’accettazione della complessità e alla sua inclusione nel sistema di gestione.
L’approccio più efficace per la diffusione delle politiche di diversità in un’azienda globale è quello trasversale: l’azienda globale stabilisce un certo numero di priorità globali condivise, basandosi su una discussione nelle reti di filiali e consente allo stesso tempo alle filiali nazionali di identificare le loro priorità uniche per gestire le diversità domestiche. Questo approccio, diversamente da quello universalista e da quello localista, riconosce le tensioni tra le applicazioni globali e quelle locali della gestione della diversità. Si arricchisce dell’assunto per cui sia le priorità globali che quelle locali per la gestione della diversità hanno uguale legittimazione.
In un’azienda effettivamente globalizzata, la diversità pervade tutti i processi relativi alle Risorse Umane. Per esempio, la diversità è presa in considerazione nel processo di Gestione della Prestazione Individuale o nei programmi di Sviluppo della Leadership. Ogni Country Manager promuove, gestisce e assicura il progresso delle iniziative relative alla diversità nel Paese.
Il caso Ericsson mostra come l’azienda abbia un approccio complesso alla gestione globale delle diversità e combini un impegno per stabilire priorità globali (ad esempio, la rappresentatività di genere e di nazione) con l’applicazione di priorità nazionali. In effetti, il Global Diversity Management è considerato un processo di gestione del cambiamento e condotto con obiettivi e progetti per monitorare tale cambiamento organizzativo.
Riferimenti
- De Feo G., Storti C., Multiculturalità ed interculturalità, in Quaderni di Management E.G.V. Edizioni, n° 53 – settembre, ottobre 2011
- Bennett Milton J., a cura di, Principi di comunicazione interculturale, Franco Angeli, 2002
- Goleman Daniel, Intelligenza Emotiva – Che cos’è e perché può renderci felici, Bur, 1996
- Castiglioni I. , La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Carocci, 2009
- Bauman Zygmunt, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli 2000
- Hinds P. J., Mortensen M., Understanding Conflict in Geographically Distributed Teams: The Moderating Effects of Shared Identity, Shared Context, and Spontaneous Communication, in Organization Science, Vol. 16, n. 3, May–June 2005, pp. 290–307