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Ci sono diverse indicazioni dalle scienze cognitive che supportano questo strano suggerimento. La prima prende il nome di loss aversion. Ormai qualche decennio fa, Daniel Kahneman, Nobel per l’Economia, e Amos Tversky, suo coautore di una vita, scoprirono che, per la maggior parte di noi umani, non c’è simmetria tra perdere e guadagnare. Hanno un peso psicologico assai diverso. Guadagnare 100€ fa piacere, ma perderne 100 ci addolora incomparabilmente di più. Pardon, in realtà comparabilmente: secondo i due psicologi, il rapporto emotivo è oltre 1 a 2. Dunque, il servizio che voi offrite con la prospettiva di incassare 100€, al vostro interlocutore, che deve separarsi (perdita) dal proprio denaro, pesa come se gliene chiedeste 200, ed è quindi psicologicamente fuori mercato.

Né si tratta di cosa che riguardi solo il denaro. Se scambiate (contestualmente o a distanza di tempo) con qualcuno due favori che a un terzo osservatore possano apparire equamente distribuiti, ciò che riceverete in cambio (guadagno) non vi apparirà adeguato rispetto a quanto avete dato (perdita). E alla stessa logica soggiacciono, ahimè, status, affetti, e una serie di altre entità.

A questo si aggiunga un secondo condizionamento cui siamo tutti inconsapevolmente soggetti: l’endowment effect (effetto dotazione), che alla loss aversion è strettamente collegato. Per il semplice fatto di essere nella nostra disponibilità (anche solo temporaneamente; di più, anche solo virtualmente, come quando facciamo un’offerta che consideriamo finale in un’asta di Ebay), l’oggetto in questione aumenta – per noi – in modo del tutto naturale di valore. Se avete mai provato a chiedere a un’agenzia di valutare lanostra casa, per sentirci rispondere con una cifra che ci appare francamente miserabile, capite cosa voglio dire. Mettendo insieme loss aversion ed endowment effect, ogni tanto mi chiedo come le transazioni (non professionali) riescano nella maggior parte dei casi a chiudere il divario psicologico tra domanda e offerta.

Per inciso, ci sono molti esempi (ed esperimenti) che illustrano questo fenomeno, ma quello che ho sempre trovato più ingegnoso viene dalla letteratura. Giuseppe Pontiggia, in un librino satirico (Le sabbie immobili, Il Mulino, 1991), dedica un capitolo a una “Guida per viaggiare con un avaro”. Cito testualmente.

Per convivere con gli avari, anche solo per un viaggio, occorre immedesimarsi nelle loro reazioni. Non è facile. Io avevo escogitato anni fa un piccolo sistema. Moltiplicavo mentalmente per tre tutti i prezzi e così riuscivo a vederli come li vedevano loro. Nessuna persona normale rinuncerebbe all’acquisto di una guida perché il prezzo è di diecimila lire. Se però diventasse di trentamila, sarebbe giustificata qualche riflessione, che nell’avaro si trasforma invariabilmente in un rifiuto.

Parafrasando Albert Camus, “gli avari siamo noi”.

 

Abituiamoci dunque a moltiplicare per due, e ogni tanto anche per tre, se vogliamo davvero comprendere alcuni comportamenti dei nostri simili. Nel titolo, peraltro, mi sono spinto fino a moltiplicare per cinque. Da dove viene questo estremismo?

Qui le cose si fanno più opinabili, lo premetto, ma si sta facendo strada una sorta di generalizzazione della loss aversion, che riguarda nientemeno che il bene e il male, il buono e il cattivo.

A partire dagli anni ’90, lo psicologo Roy Baumeister ha cominciato a notare che le nostre menti, e le nostre vite, sembrano influenzate da un fondamentale sbilanciamento: “il male è più forte del bene” (bad is stronger than good). Lo abbiamo appena visto nel caso delle perdite e dei guadagni; lo ritroviamo in innumerevoli esempi della vita reale.

  • Una cattiva prima impressione ha un impatto molto maggiore di una buona prima impressione.
  • L’impatto degli eventi negativi dura più a lungo di quello degli eventi positivi.
  • Un’immagine negativa stimola più attività elettrica nel cervello che un’immagine positiva.
  • O, come recita un detto russo, un cucchiaio di catrame rovina un barile di miele, ma un cucchiaio di miele non migliora un barile di catrame.

Potremmo continuare. Baumeister e Paul Rozin diedero a questo andazzo il nome suggestivo di negativity bias.

Un’idea del perché chiama in causa la psicologia evoluzionistica. Come argomentato nel recente volume The Power of Bad, per sopravvivere, la vita deve vincere tutti i giorni. Alla morte basta vincere una volta sola. Così, i nostri antenati avevano maggiori chance di sopravvivere se prestavano più attenzione a evitare i funghi velenosi che ad assaporare quelli eduli.

Il discorso porterebbe lontano, ma per i nostri fini ha preso una svolta interessante. Preso atto dello sbilanciamento suddetto, i nostri eroi hanno cominciato a chiedersi quanto forte esso fosse: come dire, quanto cattivo è il male? Come Tversky e Kahneman con la loss aversion  prima di loro, hanno provato a calcolare quanti eventi o sentimenti positivi fossero necessari a bilanciarne uno negativo. Robert Schwartz aveva già osservato che persone con funzionamento ottimale provavano mediamente quattro sentimenti positivi per ciascuno negativo (quelle normali si aggiravano su un rapporto 2,5 a 1; 1 a 1 prediceva una leggera disfunzionalità, mentre le persone depresse scivolavano nell’inversione, 1 a 2). In un contesto diverso, John Gottman aveva scoperto che partner che nel loro ménage mostrassero un pari numero di interazioni positive e negative erano destinate a una relazione senza futuro, mentre le coppie che avevano un futuro felice davanti avevano un rapporto di 5 a 1

Baumeister e il coautore Tierney suggeriscono più prudentemente una regola del pollice che chiamano Regola del Quattro. Ci vogliono quattro cose buone per compensarne una cattiva.

  • Se commettete un errore sul lavoro, non vi basterà un buon risultato per cambiare la percezione sul vostro conto.
  • Se dovete andare d’accordo con un collega, assicuratevi almeno quattro apprezzamenti positivi per ogni critica che farete.
  • Le aziende di successo hanno almeno quattro clienti soddisfatti per ciascun cliente insoddisfatto.

Insomma, non una regola ferrea, ma un’idea di cui vale la pena tenere conto nel nostro lavoro e nella vita quotidiana.

Crescete, dunque, e moltiplicate.

 

P.S.: Il racconto di Pontiggia prosegue ancora per qualche riga. Come tutte le analogie, nelle frasi successive la sua perde un po’ di aderenza al tema – anche se con qualche forzatura si potrebbe recuperare tirando in ballo gli stati emotivi. Per chi volesse continuare, per pura curiosità, la lettura, ecco il seguito.

Questo sistema, apparentemente funzionale, può avere però bisogno di amplificazioni di scala. In certi casi non basta per moltiplicare per tre, ma per sei. In un giorno di afa, una bibita di tremila lire, anche se moltiplicata per tre, non ci creerebbe problemi. Ma all’avaro, si. A quale cifra salire per condividere, o per lo meno decifrare il suo comportamento? A diciottomila, grazie alla moltiplicazione per sei. Ecco, a quel prezzo, forse esitereste ance voi. E mentre acquistate la bibita che continua a costare tremila lire, potete capire l’avaro che al vostro fianco, terreo, il volto imperlato di sudore, balbetta: «Grazie, non ho sete»

 

Riferimenti:

Baumeister, Roy F., Tierney, John. (2019). The Power of Bad: How the Negativity Effect Rules Us and How We Can Rule It. New York: Penguin Press.

Pontiggia, G. (1991). Le sabbie immobili. Bologna: Il Mulino.

 

photo by Marten Björk

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Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica