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Ognuno di noi, in base al proprio sviluppo personale, per autorealizzarsi dovrebbe essere costantemente impegnato nel presidiare direttamente i propri compiti vitali, sentirne l’esigenza personalmente e non per interposta persona.
Eppure si creano continuamente, in famiglia, sul posto di lavoro, nella vita di coppia, nel proprio gruppo di amici, questi doppi legami in cui diventa legittimo delegare all’altro anche la nostra realizzazione.
Con la complicità di un contesto sociale tutt’altro che semplice, spesso mi ritrovo a considerare questo momento presente come un periodo di forte percezione di passività, presunzione difensiva, profonda ignoranza e incertezza.
Inconsapevoli di perdere di vista, a volte, la costruzione del nostro piano di vita, del nostro finalismo causale, cercando perlopiù un’autoconservazione narcisistica.
Quante volte ci sentiamo prigionieri di rituali seriali, vuoti e inconsapevoli?
Nella nostra corsa contro il tempo, quante volte ci permettiamo davvero di pensare, approfondire e non produrre solo commenti estemporanei?
Ecco come lentamente ci trasformiamo in puri esecutori di compiti prestabiliti, nella coazione e ripetere delle stesse parole, degli stessi gesti, dei medesimi schemi. Certo in un periodo storico come questo, l’ancoraggio a questa ricorsività può anche essere salvifica, ma la riflessione che vorrei proporre è sulla tendenza all’assuefazione e al ripetere, a volte, anche schemi disfunzionali.
Ci alziamo, andiamo al lavoro (nel migliore delle ipotesi), torniamo a casa, provvediamo alla nostra famiglia
e ripetiamo incessantemente questa catena di eventi intervallando questa procedura con insoddisfazione latente che camuffiamo con il protagonismo sui social e con le polemiche sterili su qualsiasi cosa ci accada.
E’ in questo arido ripetersi di eventi che è facile cogliere una mancanza: la totale perdita di interesse nella ricerca della nostra meta autentica.
“Una persona non saprebbe cosa fare se non fosse orientata verso una meta; non potrebbe
pensare, sentire, volere o agire senza la percezione di essa”
Tutti i rapporti causali del mondo non danno all’organismo vivente la possibilità di vincere il caos del futuro, ed essere privi di progetti ci renderebbe delle vittime.
Ogni attività persisterebbe nella fase di un barcollamento indiscriminato e non raggiungeremmo mai un equilibrio nella nostra vita psicologica.
Senza un’autocoerenza, una fisiognomia e una nota personale, saremmo ridotti al rango di un’ameba.
La natura inanimata obbedisce a una causalità percettibile, ma la vita è, soggettivamente una richiesta.”
Alfred Adler
La vita è una richiesta, una spinta realizzativa all’interno della collettività, è un perseguire obiettivi personali che agiscano verso il sentimento sociale; una logica privata che agisca nel rispetto del senso comune.
Si pensa all’antisocialità prevalentemente con aggressione verso l’altro, ma non c’è solo la violenza agita come comportamento distruttivo, ne esistono tanti altri anche molto subdoli perché non esibiti.
Un esempio come l’indolenza, l’inerzia e a passività magari dettati da compiti vitali presidiati da altri che portano a deresponsabilizzazione e atteggiamenti improduttivi ma autorizzati.
Altri esempi possono essere: la prassi del clientelismo, l’assistenzialismo, la demotivazione strumentale, l’assecondare per convenienza, l’utilizzo dei rapporti sociali per soli scopi di utilità personale.
Atteggiamenti che portano un vantaggio fittizio per se stessi e che spesso vincolano gli altri a compensare cronicamente.
Quest’atteggiamento che nel breve termine può produrre senz’altro benefici -da un lato pieno accudimento e dall’altro pieno potere sulle persone- alla lunga può creare dipendenze patologiche e causare la totale perdita di interesse e volontà di costruire sempre una propria meta vitale di autorealizzazione.
BIBLIOGRAFIA
Ansbacher H., Ansbacher R., La psicologia individuale di Alfred Adler, Psycho, Firenze
Autori vari, Psicanalisi e neuroscienze- Per un manifesto antiriduzionista, Moretti & Vitali
Photo by Donald Giannatti