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L’elenco di buoni propositi
Ogni anno, il 1° gennaio, in preda all’euforia dell’alcool e dei festeggiamenti, ci dilettiamo a trascrivere sulla nuova Moleskine (o sul cellulare, sul tablet, o nei circuiti neuronali) il nostro personale elenco di buoni propositi per il Nuovo Anno.
Qualche settimana dopo – ma per molti sono sufficienti anche solo pochi giorni – ci domandiamo, sconsolati, dove abbiamo sbagliato. Quella stessa lista che stiamo già mandando allegramente in cavalleria ci sembrava, mentre la stilavamo, nient’altro che buon senso; e nessuna delle voci che avevamo accuratamente selezionato sembrava irraggiungibile, avendo oltretutto a disposizione un intero anno per perseguirla. Possibile che il massimo che riusciamo a dimostrare a noi stessi sia la forza di volontà di un’ameba?
Dove abbiamo sbagliato con l’elenco di buoni propositi?
Non saremo forse il Mahatma Gandhi, ma forse non è neanche tutta colpa nostra. Forse non è neanche colpa dei singoli propositi. Forse è colpa degli elenchi di buoni propositi.
Così almeno suggerisce lo psicologo Roy Baumeister, dall’alto di un imponente filone di ricerca cui egli stesso ha dato la stura diversi anni fa. Non fate un elenco di buoni propositi per l’Anno Nuovo. Meglio focalizzarsi su un obiettivo solo, e attenersi ad esso. Fidatevi, è già abbastanza impegnativo così.
Baumeister è uno psicologo controcorrente. Lo è nei confronti della propria categoria (le sue ricerche inseguono spesso ipotesi scomode, o desuete, o troppo ambiziose per lo psico-mainstream). Si direbbe che il gusto che prova nello sviluppare le proprie tesi sia proporzionale allo scompiglio che queste potrebbero provocare tra i colleghi. Nello specifico, il nostro è andato a riesumare un’idea che pareva dispersa dai tempi di Freud (per il quale sembra peraltro mostrare una qualche simpatia, come vedremo, nonostante la profonda discordanza di idee). Si tratta dell’ipotesi che la forza di volontà sia qualcosa di più che una semplice metafora, così come è stata intesa da molta psicologia moderna – inclusi coloro che sono giunti a negarne l’esistenza – dopo un periodo da assoluta protagonista in epoca vittoriana. Il discorso è lungo, e non è il caso di ingabbiarlo nel letto di Procuste di un articolo. Ma mi prendo la libertà di iper-semplificarne qualche aspetto, chiedendovi di immaginare la forza di volontà – come suggerisce lo stesso Baumeister – come un muscolo, che viene affaticato da un uso eccessivo; ma può anche essere rafforzato, nel lungo termine, dal giusto esercizio. Oppure, come preferisco a volte vederla io, come un serbatoio, che viene riempito lentamente da un piccolo rubinetto, ma può perdere il suo contenuto da più di uno scarico.
Buoni propositi, forza di volontà e resistenza alle tentazioni
Che molte attività fisiche – dall’allenare le mani con un hand gripper al mantenere un ritmo di marcia più sostenuto di quanto ci verrebbe spontaneo – richiedano un qualche accesso a questo serbatoio per sostenersi, è facile da comprendere. Arriva il momento in cui le gambe fanno male, e il fiato è corto: proseguire nella corsa richiede di attingere alle nostre riserve di determinazione. Ma a queste stesse riserve attingono anche altre attività insospettate.
Controllare i nostri pensieri, ad esempio. Ci illudiamo che i nostri mentali (e parliamo di quelli coscienti) siano totalmente sotto il nostro controllo, ma ciò è vero solo in misura limitata. Come è noto, chiedere a qualcuno di “non pensare all’elefante” è il modo migliore per popolare di pachidermi indesiderati la mente del nostro interlocutore. Ma la cosa sorprendente è che, se lo sottoponete, subito dopo, a una prova di resistenza mentale (ad esempio risolvere un rompicapo che, a sua insaputa, non ammette soluzioni), lo vedrete gettare la spugna più facilmente di chi non sia stato precedentemente esposto all’inconsueto divieto zoologico. Apparentemente, dunque, l’esercizio del controllo sui nostri pensieri interferisce con le attività di controllo dell’azione (convincere sé stessi a non desistere, focalizzare le energie sul task in esecuzione, coordinare le azioni, ecc.).
Ma se volete assistere a qualcosa di veramente sorprendente, chiedete a un amico di guardare la scena finale di Love Story sforzandosi di non piangere, o una gag di Stanlio e Ollio impedendosi di ridere. Ammesso che riusciate a convincerlo ad affrontare, subito dopo, una sessione di hand gripping, lo vedrete insolitamente desistere prima del previsto. Anche qui, uno sforzo fisico contende energie mentali a qualcosa di altrettanto impegnativo. Perché fingere, a quanto pare, non è un’operazione a buon mercato. Come non sono a buon mercato tutte le attività di controllo dell’emozione, in particolare in un contesto sociale.
Per non parlare di un’ulteriore tipologia di attività che tende anch’essa a prosciugare le nostre riserve auree di volontà: resistere alle tentazioni. Sembra che sia un compito che affolla particolarmente le nostre giornate: secondo uno studio attendibile, passiamo circa un quarto delle nostre ore di veglia a resistere alle tentazioni (in ordine di frequenza: mangiare, dormire, distrarsi, e poi sesso, e-mail, social network, ecc.). Con un modesto 50% di tasso di riuscita, pare. Avrete già capito che esercitarsi in palestra o risolvere puzzle dopo aver declinato ogni genere di dolce offerto per Natale – siete a dieta! – non avrà molte chance di successo.
Infine, che dire delle decisioni? Molte di esse, sappiamo da tempo, sono a carico di quello che Kahneman chiama pensiero veloce: invisibile alla nostra coscienza, opera con grande velocità e elevato parallelismo secondo micro-regole rigide ma per lo più efficaci, e senza percezione di sforzo esperito. Ma quando, invece, abbiamo bisogno di affrontare problemi meno banali, ci tocca ricorrere al pensiero lento: sequenziale, macchinoso, divoratore di attenzione e di risorse di calcolo. Ad alto assorbimento di energia (glucosio a fiumi). Faticoso, molto faticoso. E, per questo, spesso bisognoso di una dose extra di sforzo di volontà (provate a moltiplicare a mente due numeri di tre cifre e mi saprete dire).
Questi piccoli esempi sono solo la punta dell’iceberg di una montagna di dati sperimentali che sembrano puntare tutti in una stessa direzione. Controllo delle emozioni; controllo dei pensieri; controllo degli impulsi; controllo delle azioni. E decisioni. Sono tutte attività che ci costano fatica mentale. Baumeister ha mostrato che tutte queste attingono, per superare tale fatica, allo stesso serbatoio di forza di volontà. Il cui contenuto non è infinito. Abbiamo un budget di “energia di volizione” limitato. Quando lo spendiamo per una delle voci, l’energia a disposizione delle altre diminuisce, riducendo in tal modo la capacità delle persone di regolare pensieri, sentimenti e azioni. È quello che Baumeister chiama, con un piccolo omaggio a Freud, ego depletion.
Lo sviluppo dell’idea prosegue, con risvolti a volte abbaglianti (esistono rapporti tra il glucosio in circolo e la forza di volontà?). Noi, però, ci fermiamo qui, perché abbiamo quanto basta per tornare all’argomento di partenza.
Perché tanti buoni propositi falliscono?
A meno che l’anno nuovo non ci renda infinitamente indulgenti verso noi stessi, le voci che avremo scritto sull’elenco dei buoni propositi saranno tutte, o quasi, ad alto tasso di consumo di determinazione. In una forma o nell’altra, ci richiederanno di fare gli straordinari nel controllo degli impulsi (quest’anno, dieta!), delle azioni (palestra due volte alla settimana), dei pensieri (mindfulness?), delle emozioni (devo essere meno aggressivo con i miei colleghi).
Ora sappiamo che tutti attingono alla stessa, limitata, sorgente. E che sono, di conseguenza, in aperta concorrenza l’una con l’altra. Ogni volta che ne seguite una, diminuirete automaticamente la vostra capacità di conseguire (tutte) le altre. Siamo capaci di tutto. Ma una cosa alla volta. Baumeister dixit.
Buon anno.
Photo by Kelly Sikkema