tempo di lettura 14′
Mi ha colpito un volume del 2022, dal titolo “Quit: The Power of Knowing When to Walk Away”. La sua autrice, Annie Duke, è una singolare scrittrice e public speaker, attiva sui temi del decision making, che ha costruito una parte sostanziale della propria esperienza sul campo ai tavoli da poker, in qualità di giocatrice professionista ad altissimo livello – cosa che dal libro, peraltro, traspare chiaramente.
In un mondo che, sempre più monotematicamente, celebra la grinta (grit) e la tenacia come sistema di vita a tutti i livelli (personale, di team, di organizzazione, addirittura di nazione), la Duke ci ricorda sommessamente che, se possiamo parlare in senso proprio di scelte – senza che queste si traducano in altrettante irreversibili condanne a vita – è solo perché, come abbiamo potuto entrare in un progetto, un percorso di carriera, o una storia di coppia, così possiamo decidere in qualsiasi momento di venirne fuori. E le modalità (e soprattutto i tempi) dell’uscita sono non meno importanti di quelle di entrata. A ben guardare, sono le due facce di una stessa medaglia.
Perché coltivare le skill di uscita, accanto a quelle che ci invitano a perseverare?
Tra le molte ragioni, eccone un paio. Primo: tenere duro è condizione necessaria (a meno di colpi di fortuna) per raggiungere i nostri obiettivi, ma di per sé non costituisce affatto una garanzia di riuscita. E continuare ad insistere è tanto una virtù – quando l’oggetto è qualcosa per cui vale la pena darsi da fare – quanto un difetto letale, quando perseveriamo lungo un vicolo cieco. Secondo: uscire è uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per rispondere all’arrivo di informazione nuova che si manifesta solo dopo aver preso la decisione. È la condizione sine qua non del feed-back. La chiave del successo, per usare un concetto trito, ma non privo di verità, non è perseverare, perseverare, perseverare. Ma piuttosto perseverare su ciò che vale la pena, e saper uscire da tutto il resto. Saper distinguere ciò che merita da quel che no, e cambiare idea quando il contesto muta, fanno parte dell’essenza delle quitting skill.
La capacità di uscire dalle situazioni al momento giusto non gode di buona stampa.
L’asimmetria (sfavorevole) rispetto a chi risponde con immarcescibile determinazione alle avversità è clamorosa, ed ha una lunga storia alle spalle. Gli eroi son tutti giovani e belli; e tenaci e pervicaci, per giunta. Al contrario, coloro che ci mettono la testa per abbandonare in tempo un’impresa impossibile, sono spesso perseguitati da uno sgradevole alone di arrendevolezza e debolezza che non li rende affatto popolari. Peggio. Li rende fondamentalmente trasparenti. La letteratura di business è affollata da storie di grinta e persistenza premiate infine dal successo, storie da cui si suppone che il lettore volenteroso abbia di che imparare. Di più: in un vero salto quantico per la mitografia mainstream, cominciamo persino a leggere – finalmente – racconti di fallimenti più o meno epocali dai quali pure sarebbe il caso di apprendere qualcosa. Ma le avventure dei quitter, coloro che hanno saputo evitare una catastrofe per sé e per i propri stakeholder, avendo la forza di ritirarsi a volte anche solo a pochi metri dal traguardo, semplicemente non sono previsti dallo storytelling corrente. Sono poco glamour. Non fanno notizia. Forse sono addirittura diseducativi. Il che è un vero peccato, perché le quitting skill dovrebbero essere parte integrante dell’armamentario del decision maker efficace, non fosse altro che perché possono impedire lo spreco di risorse che potrebbero essere meglio impiegate altrimenti (costi opportunità). Ma è davvero difficile learning by examples – una delle poche forme di apprendimento rimaste in auge – quando gli examples pertinenti, semplicemente, non vengono raccontati da nessuno.
Questa asimmetria peraltro non è solo un’impressione, ma riflette una difficoltà reale per ciascuno di noi nell’uscire dalle situazioni di poca prospettiva, anziché invilupparvici dentro sempre più (ciò che viene chiamato comunemente escalation of commitment). Perché ciò accade? Questo squilibrio possiede sicuramente una dimensione culturale evidente, come si desume facilmente dal suo frequente, periodico riemergere nelle retoriche di tutti i tempi (e l’impressione è che proprio oggi stiamo assistendo a un suo ritorno in molteplici forme, inclusa quella che accompagna le guerre odierne – militari ed economiche). Ma ogni volta che ci si è chiesti se, sotto i comportamenti, si potessero scorgere delle ragioni più direttamente collegate alle caratteristiche della natura umana, il dibattito ha restituito, a mio avviso, risposte poco convincenti. Fino a che non si è cominciato a ragionare in termini di psicologia evoluzionistica. A considerare, cioè, che certe tendenze comportamentali siano state, nei millenni, selezionate dall’evoluzione naturale perché risultate utili a risolvere una serie di problemi di sopravvivenza che i nostri lontani antenati si sono trovati ad affrontare. Parliamo qui di risposte automatiche, universali e per lo più inconsce agli stimoli quotidiani, che non possono certo essere qualificate come razionali, ma ci assicurano, nella gran parte delle situazioni di ogni giorno, soluzioni rapide, poco dispendiose in termini di energie mentali, e sufficientemente efficaci. Va da sé che queste risposte, a tutti gli effetti delle scorciatoie mentali, non sempre sono perfettamente calibrate sul contesto cui vengono attivate (specialmente se questo è profondamente diverso dall’ambiente atavico in cui sono state selezionate). In questi casi, esse possono creare problemi, anziché fornire soluzioni. L’errore che si genera in queste situazioni prende il nome di bias cognitivo. E sono numerosi i bias che agiscono nell’ombra, ogni qual volta vediamo all’opera questa asimmetria stick/quit (insisto o lascio).
Stick or quit? (insisto o lascio)
Ora, se consideriamo stick e quit come due facce della stessa medaglia, vediamo facilmente come il problema dell’uscita nasce dal concorso di due tendenze complementari: una certa propensione alla persistenza, e una serie di difficoltà a lasciare. Le ragioni nascoste della prima sono tutto sommato abbastanza note: basti pensare all’overconfidence, l’eccessiva (e ingiustificata) fiducia nella superiorità delle proprie qualità (fortuna inclusa), malattia professionale di categorie come i CEO, ma democraticamente diffusa tra tutti noi umani. Si tratta chiaramente di un bias, perché distorce qualunque valutazione razionale di intraprese in cui siamo personalmente coinvolti, truccando spudoratamente la bilancia a favore dello stick. D’altra parte, non stupisce che la selezione naturale abbia conservato quello che manifestamente è un errore sistematico di stima: senza una spintarella in una direzione ottimistica, la pressione a intraprendere progetti in cui il payoff non sia così visibilmente vantaggioso (quasi tutti quelli che hanno portato alla civiltà come oggi la conosciamo) non sarebbe stata così impetuosa. A questi bias, la Duke affianca una spiegazione che personalmente trovo molto umana. Scegliere di “mollare il colpo” significa rinunciare per sempre a sapere se la linea di azione che avevate scelto avrebbe mai avuto successo. L’unico modo per avere una risposta certa, purtroppo, è di insistere nell’impresa. Per definizione, uscirne vi consegna ad uno stato permanente di what if e di possibili rimpianti.Una condizione che, per molti di noi, può rivelarsi quasi insostenibile.
I bias che ci intralciano nell’andarcene
Per contro, i bias che ci intralciano quando dovremmo liberarci delle situazioni indifendibili sono numerosi, e variamente intrecciati tra loro. Ecco un rapido accenno, limitato agli irrinunciabili.
Il vostro attuale lavoro comincia a starvi un po’ stretto, e vi viene offerta un’alternativa migliore – ma non clamorosamente migliore – che comporta qualche cambiamento. Un modo razionale di affrontare la scelta sarebbe quello di pensare in termini di expected value (EV), una misura del valore delle diverse alternative, pesato per la probabilità che i diversi scenari si verifichino. Prima di scartarlo come freddo calcolo, considerate che l’EV non è una pura questione di denaro, ma può essere misurato in termini di salute, benessere, soddisfazione morale, autorealizzazione, o qualunque altra dimensione sia importante nella vostra vita. Se, nonostante l’EV del nuovo lavoro superi quello del precedente, decidete di non muovervi, sappiate che all’origine di questa scelta potrebbe esserci la loss aversion: un bias per cui l’impatto emotivo di una perdita pesa molto di più di quello di un equivalente guadagno (quasi il doppio). Il che significa che ciò che di buono troverete nel nuovo lavoro (gain) dovrebbe psicologicamente doppiare quanto lasciate nel vecchio (loss) per convincervi a uscire; giudicate voi stessi quanto frequenti siano questi tipi di occasione.
Come se non bastasse, la loss aversion pare accanirsi nelle circostanze in cui ci troviamo già in una condizione di perdita, proprio quando, cioè, dovremmo prendere in seria considerazione l’idea di abbandonare l’impresa per non compromettere ulteriormente la situazione. Tanto i giocatori d’azzardo quanto gli investitori di borsa dilettanti conoscono bene il problema. Quando stiamo guadagnando, non vediamo l’ora di trasformare le vincite virtuali (fiche, o valori azionari che siano) in denaro sonante. In più, l’idea di rischiare di perdere ciò che abbiamo virtualmente in tasca ci tormenta più della possibilità di ulteriori guadagni, e tendiamo quindi a uscire prima di quanto sia ragionevole farlo: siamo risk averse. Viceversa, quando stiamo perdendo, l’idea di concretizzare la perdita, trasformando un debito virtuale in un esborso reale, è talmente dolorosa da farci preferire di rischiare ulteriormente (rinunciando a uscire) pur di darci una chance di recuperare la perdita. Avviando quell’effetto valanga che è tipico dell’escalation of commitment, la propensione a persistere in corsi d’azione perdenti, specialmente in reazione a evidenze negative. Un’altra pessima notizia per le nostre quitting skill. Se mai vi è capitato di discutere con un terrapiattista di qualsiasi fede, e vederlo raddoppiare il suo commitment a fronte di eventi che lo contraddicono clamorosamente, sapete di cosa sto parlando. È il campo d’azione preferito della dissonanza cognitiva, il conflitto interno che viene a generarsi quando nuova informazione entra in rotta di collisione con il nostro modo di vedere il mondo (e specialmente noi stessi: amiamo mantenere una coerenza tra le nostre azioni e convinzioni, e amiamo che gli altri ci vedano alla stessa maniera). Va da sé che uscire da qualcosa in cui abbiamo investito, a volte pubblicamente, a volte contro tutti e tutto, significa contraddire ciò che è diventato una parte della nostra stessa identità. In questi casi, dove i fatti negano le opinioni, sono spesso i fatti a farne le spese.
Oltre all’immagine, tutto quanto abbiamo investito in un’intrapresa costituisce, ai nostri occhi, una ragione in più per non abbandonarla. Non si può tornare indietro proprio adesso! Ma è una logica fallace. Per la precisione, è un bias che prende il nome di sunk cost fallacy: i costi già sostenuti, in un’ottica razionale, sono da considerarsi perduti (sunk cost), e non dovrebbero in alcun modo influenzare la decisione se continuare o meno, che dovrebbe essere esclusivamente basata sulle prospettive dell’expected value valutato al momento. Eppure i nostri progetti, e le nostre esperienze organizzate, sono come le palle di neve che si trasformano pian piano in valanghe: rotolando raccolgono altra neve, qualche rametto, dei sassolini leggeri, un guanto lasciato per terra, fino a inglobare detriti sempre più grossi. Così ogni nostra impresa assorbe, rotolando, il denaro che abbiamo investito, le aspettative iniziali e quelle che si sono aggiunte, abitudini, rapporti con i colleghi, persino frammenti importanti delle nostre identità. Ogni detrito inglobato rende sempre più voluminoso il conglomerato (Duke lo chiama katamari, dal nome di un videogioco degli anni ’90), e sempre più difficile la decisione delle decisioni: fermare la valanga (quando è il caso).
Ci sarebbero ancora altri bias in agguato, dall’endowment effect (la sopravvalutazione di qualsiasi cosa – idee e convinzioni incluse – sia in nostro possesso, anche solo temporaneo o virtuale. E che rende ogni separazione psicologicamente più onerosa) allo status quo bias, che tende a dissuaderci da ogni forma di cambiamento. Ma tutti questi ostacoli diventano macigni anche perché il momento in cui siamo imperiosamente chiamati a prendere la decisione di uscire o continuare è, letteralmente, il peggiore possibile. Vale s dire, quando siamo immersi nella situazione, dolorosamente consapevoli – magari con grande sorpresa – che siamo in una condizione di perdita, zavorrati da investimenti emotivi e non. E magari illusi da dettagli marginali che ci danno una sensazione di progresso priva di corrispondenza con la realtà.
Che fare?
La cattiva notizia è che essere consapevoli dei nostri bias è cosa buona, ma non migliora sensibilmente il nostro decision-making in uscita. Che fare, allora? Magari provare a guardare al problema con occhi nuovi, come se ci fossimo appena calati in una situazione creata da altri? Limitandoci a guardare soltanto davanti a noi, senza pensare a quanto successo in passato? “Se fossimo dei totali estranei alla vicenda”, potremmo domandarci, “sceglieremmo di accettare la sfida (stick), o ci rifiuteremmo di perseguirla (quit)?”.
Ma anche questo trucco, per quanto di buon senso, non funziona, ci dicono gli studi. Non riusciamo davvero a sostituire il nostro sé, profondamente coinvolto, con un osservatore esterno.
In questo quadro apparentemente senza vie d’uscita, la Duke ci dà un paio di suggerimenti utili.
- Il primo: cerchiamo di anticipare per quanto possibile il tema dell’uscita, proprio perché sappiamo che, quando saranno le circostanze a costringerci a decidere, sarà troppo tardi. Ma a quando anticipare? Alla fase in cui prepariamo una nuova intrapresa. È infatti quello il momento giusto per chiederci: “Esistono dei segnali che mi indichino, man mano che procediamo, che è il caso di abbandonare l’impresa, o quanto meno di prenderne in esame seriamente la possibilità?”. “Cosa potrebbe avvisarmi che non sono più in grado di raggiungere i miei obiettivi, o che sarò in grado di farlo solo a un costo inaccettabile, o che non sono più sicuro di cosa davvero desidero ottenere?”. Duke chiama killing criteria queste condizioni “if then”, e consiglia di considerarle alla stregua di un contratto di pre-commitment all’uscita, un reticolo che edifichiamo per limitare la nostra stessa sfera di azione quando i condizionamenti saranno troppo forti per essere affrontati razionalmente.
- Personalmente, però, ho una particolare predilezione per il secondo consiglio. Duke fa suo un monito che le offre in una conversazione Daniel Kahneman. “Ciò di cui tutti avremmo bisogno è un amico che ci voglia davvero bene, ma che non abbia paura di ferire i nostri sentimenti quando è il momento opportuno”. Con questo, Kahneman riconosce naturalmente che dall’esterno è molto più semplice vedere avvicinarsi le condizioni che rendono opportuno uscire da una situazione. Un buon amico (per lui, il collega Nobel Richard Thaler), avendo a cuore il nostro bene, ha normalmente la motivazione giusta per metterci in guardia contro i pericoli di un’ostinata insistenza nello status quo. Ma, d’altra parte, lo stesso buon amico, spesso, non ha il cuore di tormentarci su cose che – lo sappiamo bene – non possono che ferirci. E così, per delicatezza, spesso rinunceranno, inconsapevolmente, a darvi proprio quell’informazione che potrebbe evitarvi guai enormemente maggiori.
Ciononostante, Duke conclude con questo paio di caldi suggerimenti per le nostre decisioni di vita o di business:
- Cercate almeno una persona che vi faccia da quitting coach.
- Siate dei buoni quitting coach per coloro che amate.
Ma siamo sicuri che un buon amico – e solo un buon amico – possa essere un quitting coach efficace? Ecco perché io, personalmente, credo di no.
Per un quitting coaching
Come accade a tutti, mi è capitato, con più di un amico, di agire da quitting coach, pur senza esserne pienamente consapevole. Ecco cosa ho scoperto (sulla mia pelle):
- Non sempre la reazione dell’amico è “grazie di cuore, mi hai davvero aperto gli occhi: seguirò immediatamente il tuo consiglio!”. Aspettatevi, più probabilmente – e senza necessariamente cattiveria – qualcosa più simile a “ma come ti sei permesso!?”
- Non aspettatevi che il problema si risolva chiedendo, e ricevendo dall’amico, il permesso esplicito a essere sinceri, financo brutali. “Voglio sapere davvero che cosa ne pensi, non essere reticente…” Anche ammesso che lo abbiate ottenuto, per lo più sarà scritto sulla sabbia, e non garantirà alcuna protezione rispetto alla rottura delle relazioni interpersonali (non c’è bisogno di ricordarvi il perché).
- Più probabilmente, il vostro amico rigetterà puntigliosamente ogni vostra argomentazione, magari con una punta di risentimento (ormai la cosa non dovrebbe stupirvi, essendo una reazione da copione, sulla base dei bias di cui abbiamo parlato finora).
- Se siete più fortunati, l’amico vi ascolterà distrattamente, annuendo con gentilezza, e vi ringrazierà. Ma la sua vita non cambierà di un millimetro. D’altra parte, il lato sgradevole del fare il consigliere senza poteri è che la decisione finale la prenderà l’amico in assoluta autonomia, e purtroppo – per lui – non sarà quella che voi auspicate. Tutt’al più potreste notare, per qualche tempo, una certa tendenza ad evitare di incontrarvi. Ma ormai saprete riconoscere la dissonanza cognitiva in azione.
- Non lamentatevi troppo, comunque, può andarvi molto peggio. Ad esempio il vostro amico potrebbe declinare, più o meno gentilmente, i vostri consigli. Salvo raccontarvi, un anno dopo, che ha avuto la fortuna di incontrare uno psicologo (o un coach, o il suo capo, o un celebre guru del management) che gli ha salvato la vita, togliendolo da una strada che lo stava portando alla rovina. Quella stessa su cui, un anno prima, lo avevate messo in guardia. E gratis.
Per tutte queste ragioni, sono dell’idea è che il ruolo di quitting coach, più che l’occasionale aiuto da parte di un buon amico, dovrebbe essere una delle sfaccettature del coach professionale. E che possa essere una competenza (forse addirittura una specializzazione) di un coach fatto e finito. Che, a mio avviso, dovrebbe possedere il set di esperienze e competenze necessarie per reagire correttamente a un cliente poco collaborativo (punto 1), contrattare esplicitamente una regola di mutua schiettezza (ed esigere che venga, secondo patto, rispettata, punto 2). Che padroneggi le tecniche per controllare una barriera di routine difensive (punto 3), e il cui ruolo gli conceda sufficiente autorevolezza da indurre a considerare più seriamente i consigli di uscita (punti 4 e 5). Soprattutto, che sappia utilizzare la competenza maieutica, che ogni buon coach dovrebbe possedere, per aiutare la persona a riconoscere da sola, nella propria diretta esperienza, i segni di quei killing criteria che rendono l’idea di uscire meno incomprensibile.
N.B. Per gli amici coach. Quali altre buone ragioni per aggiungere il quitting coaching alle nostre competenze, da assoluto outsider, sto trascurando? E quali sono gli ostacoli e le difficoltà che non riesco a vedere? Aspetto un vostro contributo.
photo by Etienne Boulanger