Alle cose ci si abitua, in fondo lo sappiamo tutti. Ci si abitua ai rumori, agli odori, perfino alla felicità, come si racconta qui all’inizio, per passare a chiedersi: è un bene o un male?
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Il peso delle prime volte
Qualche anno fa, la psicologa Tali Sharot chiese a un’importante compagnia turistica di poter analizzare i dati da essa raccolti sui sentimenti che i loro viaggiatori registravano prima della partenza, al loro ritorno, e in vari momenti nel corso della vacanza. L’idea che le frullava in testa era che, in questa sorta di contabilità edonica, le cosiddette prime volte (il primo bagno in mare, il primo tramonto tropicale, il primo cocktail gratuito, ecc.) pesassero sulla valutazione finale molto di più che le successive ripetizioni degli stessi eventi. Così, visto che le prime volte in genere si concentrano nei primi giorni di vacanza, si aspettava che le persone manifestassero un picco di felicità intorno all’inizio della villeggiatura. I risultati dell’analisi confermarono in pieno le sue congetture: per la precisione, la felicità percepita raggiungeva un massimo a circa 43 ore dall’inizio della vacanza. Dopo di che essa, nonostante il susseguirsi delle esperienze, iniziava a declinare, e, pur non esaurendosi con la fine della vacanza, non le sopravviveva di molto. Nel giro di una settimana, in genere, qualsiasi traccia di effetto positivo sull’umore sembrava scomparsa.
La debolezza dell’abitudine
Di fronte a simili risultati, Sharot cominciò a domandarsi per quale ragione ci danniamo l’anima tutto l’anno per ottenere qualcosa che, invariabilmente, finiremo per svalutare progressivamente dopo averla conseguita. Qualche risposta all’interrogativo possiamo trovarla all’interno di un recente libro, dalle prospettive assai più ampie – Look Again: The Power of Noticing What Was Always There – che la stessa Tali Sharot, insieme all’eclettico Cass Sunstein (autore, tra l’altro, di Nudge) hanno dedicato a quella che chiamano habituation: un termine che potremmo tradurre come abitudine, o, più appropriatamente, come assuefazione (abbiamo fatto un’eccezione di carattere estetico per il titolo dell’articolo: disassefuatevi! ci sembrava peggio del già goffo disabituatevi!). L’assuefazione, per come la intendono, è il fenomeno per cui rispondiamo a stimoli ripetuti in modo progressivamente sempre più ridotto. Fino a non accorgerci, in casi limite, neanche più della loro presenza.
Una qualche forma di habituation sembra essere un principio inscritto nel DNA di tutti gli esseri viventi, con effetti che si manifestano tanto a livello di singola cellula, quanto a stadi di complessità più elevati (ad esempio nei sistemi nervosi degli organismi pluricellulari). Ne sono esempi, tra noi umani, il fenomeno per cui smettiamo di percepire un rumore di fondo che inizialmente ci ha disturbato (posso confermare personalmente, essendo vissuto prima davanti a una stazione ferroviaria, e più tardi a pochi chilometri da un aeroporto); o la rapidità con cui dimentichiamo il contatto di un paio di jeans sulle nostre gambe subito dopo averlo indossato. Ma l’assuefazione riguarda anche entità più complesse, e persino più astratte, come ad esempio il rischio o lo status.
Il principio è in fondo semplice: il nostro cervello si è evoluto per identificare rapidamente opportunità e pericoli nel flusso di informazione che ci travolge quotidianamente. A chi abbia accumulato esperienza nel proprio ambiente, le vere minacce, e le buone occasioni, si presentano per lo più sotto le categorie del nuovo e dell’insolito. Niente di più utile, quindi, che un cervello in grado di filtrare l’informazione agendo, come suggeriscono gli autori, in modo analogo ai direttori dei quotidiani: riservando la prima pagina a ciò che è inedito o sorprendente, e relegando il resto alle pagine interne. Quando qualcosa di nuovo raggiunge il nostro cervello, la nostra mente provvede a modellizzarlo, collegandolo al contesto e ad altra informazione pertinente. È a questo modello, continuamente perfezionato dall’esperienza successiva, che le prossime ricorrenze dell’evento verranno comparate. Man mano che modello ed esperienza tendono a coincidere, la risposta (comportamentale, emotiva, ecc.) viene sempre più efficacemente inibita: il cervello si sta assuefacendo allo stimolo.
Ora, quando un comportamento è così ampiamente diffuso in natura, gli psicologi cominciano a sospettare che si tratti di un processo di tipo adattivo; che sia, cioè, evoluto in quanto conferiva ai suoi possessori un vantaggio competitivo, e sia quindi stato premiato dalla selezione naturale. A ben guardare, nell’esempio delle vacanze non è facile cogliere immediatamente quale vantaggio ci dovremmo aspettare dall’assuefazione. Probabilmente, se toccasse a noi riprogettare il meccanismo, ne costruiremmo uno che produca un apprezzamento adeguato allo sforzo profuso. In realtà, il vantaggio evolutivo va cercato su una dimensione collettiva, non individuale; e su una scala temporale molto più ampia. La stessa assuefazione che ci rende insoddisfatti e scontenti, ha un risvolto positivo: proprio quelle stesse insoddisfazioni e scontentezze alimentano il motore che ci spinge a progredire senza fermarci a riposare sugli allori. E probabilmente hanno contribuito ad aprire la strada alla civiltà e alla tecnologia come oggi le conosciamo.
Un’infelicità senza fine?
Tuttavia, posto che quanto detto valga per ciò che ci dovrebbe rendere felici, l’assuefazione sembra invece un tool piuttosto ben progettato per ciò che al contrario ci addolora o ci rende infelici. Chi mai vorrebbe, giorno dopo giorno, tornare a soffrire come la prima volta un evento negativo come un licenziamento, una rottura sentimentale, o un lutto? Se la risposta emotiva a tali momenti non perdesse di volta in volta intensità, ognuno di essi sarebbe una condanna all’ergastolo. È una fortuna, almeno in questi casi, che siamo stati progettati per abituarci in fretta. E, anche qui, segnaliamo un vantaggio di portata più ampia. Se non fossimo in grado di depotenziare rapidamente gli effetti dolorosi legati a ciò che perdiamo ogni volta che facciamo una scelta (su cui agiscono ferocemente lo status quo bias e la loss aversion)¸non saremmo in condizione di affrontare equanimemente alcun cambiamento. Un principio, dunque, che ci tiene letteralmente in vita, in un mondo sociale che muta velocemente: siamo capaci di abituarci a qualsiasi cosa, e piuttosto in fretta. Un esempio che abbiamo sperimentato tutti? Prendete le persone, chiudetele nelle case, impedite ogni contatto sociale diretto, sottoponetele a trattamenti sanitari di massa; il tutto in un contesto di comunicazione confusa, e senza un’idea precisa del se (per non parlare del quando) tutto ciò avrà una fine. La gente si abitua anche a questo (ogni riferimento alla parabola del COVID-19 è puramente voluto).
Ora, fin qui, nulla di particolarmente sconvolgente. Tutte cose che più o meno sappiamo. Ma saperle non significa necessariamente averle ben presenti alla coscienza quando davvero ci servirebbero. Ad esempio quando, per prendere una decisione, avremmo bisogno di prevedere con qualche affidabilità quanto le diverse opzioni ci renderanno più felici o più infelici.
Come abbiamo visto in un precedente articolo sull’affective forecasting, in qualità di umani lasciamo molto a desiderare quanto a capacità di prevedere in che misura saremo felici o infelici nel futuro per effetto di una nostra scelta. Questa difficoltà spesso si manifesta come una forma di miopia sentimentale (ci riesce facile immaginare quanto saremo felici o infelici nell’immediatezza dell’evento; ma poi, per default, assumiamo che quella condizione rimarrà immutata per tutto il tempo successivo). Un bias che trova la sua origine almeno in parte nell’azione demolitrice dell’assuefazione. I vincitori delle lotterie, dopo qualche mese di esultanza, scivolano in condizioni di felicità non troppo diverse da quelle precedenti l’evento. Essere lasciati dal proprio partner non ci lascerà per sempre in uno stato di prostrazione. Dunque, per scegliere a ragion veduta, dovremmo sempre mettere in conto che l’assuefazione eroderà tanto i picchi di benessere, quanto quelli di malessere, inesorabilmente. A meno che… A meno che siamo capaci, almeno in qualche misura, di disassuefarci.
Disassuefarci? Perché? È possibile? E, ammesso che sia possibile e utile, come diavolo si fa?
Disassuefarsi
Come abbiamo visto, la nostra mente tende a privilegiare ciò che è inedito, che varia rapidamente, che sorprende le nostre aspettative. Un meccanismo che tende quindi a farci perdere di vista l’impatto di ciò che invece rimane costante nelle nostre vite, e come tale viene dato essenzialmente per scontato. Peccato che, tra le costanti che passano inosservate, ci siano alcuni di quei fattori che, quando ci viene chiesto, indichiamo come essenziali nella valutazione di una vita ben vissuta: una famiglia amorevole, un lavoro che dia soddisfazione, una buona salute. Salvo dimenticarci di tenerne conto al momento in cui facciamo un bilancio frettoloso delle nostre esistenze. Per ciascuno di essi, infatti, navighiamo al nostro “livello di adattamento”: il livello a cui ci siamo adattati emotivamente al punto di viverlo come “neutro”. Livello che, a sua volta, oltre che della nostra esperienza diretta, è funzione anche di altri fattori culturali e sociali, tra cui, naturalmente, le nostre aspettative, e soprattutto quello che crediamo che “gli altri” possiedano (o vivano). (Una delle ragioni per cui i social network contribuiscono alla nostra infelicità è il fatto che, con il loro diffondersi, “gli altri” non sono più il vicino o il collega di lavoro, ma una platea infinita di persone di ogni strato sociale e censuario. Non solo quindi costruiamo le nostre aspettative in relazione a gruppi di persone “non pertinenti”; ma ci confrontiamo, oltretutto, con una versione delle loro vite che, spesso, viene dai medesimi attentamente manipolata. Rimanendo, alla fine, sempre un po’ delusi della nostra). Come possiamo dunque portare allo scoperto questi elementi dimenticati per poterli apprezzare adeguatamente? Come possiamo restituire i colori a panorami della nostra vita che le diverse forme di assuefazione hanno trasformato in una scala di grigi?
La saggezza popolare ci ricorda che apprezziamo davvero qualcosa quando l’abbiamo perduta. Tarot e Sunstein argomentano che, prima di arrivare all’irreparabile, c’è un paio di cosette che si possono tentare. Per i più teatrali tra i lettori, suggerisco un coup de théâtre di Zavattini, che trovate, se vi interessa, in appendice. Per tutti gli altri, una prima proposta degli autori è l’intermittenza. Citando un pensiero dell’economista Tibor Scitovsky (“Il piacere deriva dalla soddisfazione incompleta e intermittente dei desideri”), essi riconoscono che le cose belle della vita producono vera gioia se sono sperimentate occasionalmente. Ma quando vengono proposte troppo frequentemente, esse smettono di generare piacere; producono invece solo comfort. Per tornare ad apprezzare ciò che l’abitudine ha ingrigito, dunque, gli autori propongono di introdurre pause intenzionali alla loro esperienza (pause reali in un’attività piacevole; uscite temporanee dal proprio ambiente, fisiche o anche solo immaginate, come il George Bailey di Frank Capra). A queste pause è affidato il compito di disinnescare l’assuefazione: soffiare via la polvere dell’abitudine, e restituire alle nostre cose belle la loro originale polvere di stelle.
Tutto ciò per alcuni è controintuitivo, per altri puro buon senso; sta di fatto che ormai è confermato ormai da molti studi scientifici. Portando quanto sopra alle conseguenze logiche, potremmo enunciare un paio di regole del pollice:
- SUDDIVIDETE LE ESPERIENZE POSITIVE in segmenti, e separateli mediante pause dell’attività. L’assuefazione inizia ad agire subito, erodendo il piacere dell’attività man mano che la esperite. Se la divorate in un solo boccone, vi troverete alla fine con le mani mezze vuote. Ma se dopo un po’ la sospendete, fermerete anche l’assuefazione, e nella pausa avrete modo di recuperare una parte dell’intensità erosa, spazzando via almeno parzialmente l’abitudine.
- Viceversa, DIVORATE LE ESPERIENZE NEGATIVE IN UN SOLO BOCCONE. Quando il problema è sopportare un’esperienza sgradevole, l’assuefazione è in genere un vostro alleato: non perdete tempo in intervalli che potrebbero interrompere la sua azione, e ridurre il suo effetto.
Finale provvisorio
Quest’ultima regola, tuttavia, pur essendo più intuitiva, presenta molte eccezioni importanti. In altre parole, esistono situazioni in cui
- anziché sfruttare l’assuefazione per minimizzare la sofferenza psicologica,
- dovremmo piuttosto, al contrario, disabituarci il più possibile ad esse.
Perché essere così masochisti da voler patire qualcosa di brutto o doloroso ogni volta con la stessa intensità della prima?
La risposta di Tarot e Sunstein nella sostanza è che esistono fenomeni, che rappresentano problemi sociali e personali molto rilevanti, la cui dinamica è amplificata, almeno in una certa misura, proprio dal processo di assuefazione. Vogliamo disassuefarci all’onestà intellettuale per apprezzarla meglio nel nostro prossimo. Ma faremmo bene a disassuefarci alla menzogna, perché ogni piccola bugia lasciata passare alza il livello di adattamento, e genera una deriva degli standard, senza che ce ne accorgiamo. Un meccanismo che troviamo nell’assuefazione al rischio, nelle fake-news, nella discriminazione, nello spreco, nella corruzione. E in molti altri. A questi temi gli autori dedicano gran parte del libro. Al loro libro rimandiamo per ora, in attesa di riprendere magari più avanti qualcuno di questi fenomeni.
APPENDICE
Voglio insegnare ai poveri un gioco molto bello.
Salite le scale con il passo del forestiero (quella volta rincaserete più tardi del solito) e davanti al vostro uscio suonate il campanello.
Vostra moglie correrà ad aprirvi, seguita dai figli. È un po’ seria per il ritardo, tutti hanno fame.
“Come mai?” domanda.
“Buona sera, signora,” levatevi il cappello e assumete un’aria dignitosa. “C’è il signor Zavattini?”
“Su, su, il lesso è già freddo…”
“Scusi avrei bisogno di parlare con il signor Zavattini.”
“Cesare, andiamo, vuoi sempre giocare…”
Non muovetevi e dite: “Evidentemente si tratta di un equivoco. Scusi, signora…”
Vostra moglie si volterà di scatto, vi guarderà con gli occhi spalancati. “Perché fai così?”
Serio, state serio, e ripetete avviandovi giù per le scale: “Io cercavo il signor Zavattini.”
Si farà un gran silenzio, udrete solo il rumore dei vostri passi.
Anche i bambini sono restati fermi. Vostra moglie vi raggiunge, vi abbraccia: “Cesare, Cesare…” Ha le lagrime agli occhi, i bambini forse cominceranno a piangere. Scioglietevi con delicatezza dall’abbraccio, allontanatevi mormorando: “È un equivoco, cercavo il signor Zavattini.”
Rientrate in casa dopo una ventina di minuti fischiettando.
“Ho tardato tanto perché il capo ufficio…” e raccontate una bugia come nulla fosse avvenuto.
Vi piace? Un mio amico a metà giuoco si mise a piangere.
Cesare Zavattini, da I poveri sono matti (1937)