Una delle principali, se non la principale dote del counseling rogersiano è certamente la capacità di sapere restare in ascolto. Rogers consiglia, con determinazione, “di utilizzare lo strumento dell’ascolto, in quanto si tratta di un mezzo molto potente, che sostiene ed incoraggia l’altro ad esporre le sue problematiche e favorisce la sua voglia di colloquiare. Si tratta del primo passo, e per giunta basilare, per instaurare una comunicazione efficace tra il counselor e la persona che a lui si è rivolta.”¹.
La parola empatia deriva dal greco empateia e significa “sperimentare attivamente il modo in cui un’altra persona vive un’esperienza”. È questa la modalità con cui bisognerebbe approcciare una persona e le sue condivisioni all’interno di un incontro di counseling, in modo che la presona possa sentirsi pienamente a suo agio ed aprirsi.
Ma il cliente che parla e condivide il suo sentire, che cerca di esplorare sè stesso mentre si apre, a volte non sa rispettare i propri spazi, figuriamoci quelli della persona che lo accompagna nell’incontro! Il rispetto è quello che permette di strutturare una relazione in cui il cliente si senta al sicuro ed il counselor non si senta travolto dagli stati d’animo del cliente, cosa importante da non sottovalutare. Un cliente che si senta rispettato riuscirà più facilmente a mettere fiducia nella relazione di aiuto e tenderà ad aprirsi più pienamente, lasciando che le proprie difese non siano oltremodo in allerta. Ho fatto cenno al counselor che non si fa travolgere dalle emozioni del proprio cliente perché il rispetto non deve essere unidirezionale, ma riguardare entrambi gli attori della relazione di aiuto.
Alcune persone non condividono realmente quello che provano, ma quello che cercano è semplicemente l’opportunità di scaricare sull’altro le proprie tensioni. Arrivano all’incontro carichi di tensione e di emozioni, si siedono e danno libero sfogo a tutto quello che li opprime. La scarica allevia il peso che provano e permette loro di tornare alla vita di tutti i giorni mantenendo gli stessi comportamenti, sino a quando sentiranno di nuovo l’esigenza di una scarica ed allora torneranno per un nuovo incontro.
Anche nelle sedute di innerbreathing può capitare qualcosa di simile. Infatti alcuni utilizzano la fase parlata della seduta come scarica e cercano di evitare di entrare veramente nella seduta di respirazione, per non dovere incontrare il proprio sentire autentico del momento. In ultima analisi, questo scaricarsi differisce dal condividere perché la persona non usa il momento dovuto all’aprirsi come opportunità per cercare di capirsi, ma solo per cercare sollievo. La persona che accompagna in seduta può trovarsi ad assorbire questi rifiuti emozionali con poche possibilità di interagire con il cliente, venendo utilizzato più come un punchingball emozionale che come un punto di appoggio.
L’accompagnatore non deve sottovalutare questi aspetti perchè, a lungo andare, si ripercuoteranno sul suo equilibrio personale. Comincerà a sentirsi affaticato dagli incontri ed a cercare di rifuggirli o, a volte senza neanche accorgersene, a non rendersi veramente disponibile per il cliente, inoltre non è il caso di assecondare un simile comportamento in quanto, oltre a non essere sano per l’accompagnatore, non è di reale utilità neanche per il cliente che lo mette in pratica.
Ognuno deve elaborare, dunque, le proprie strategie in merito ed i meccanismi che possano tutelare il proprio equilibrio di coach e di counselor anche in base alle proprie esperienze, formazioni e credenze. Così sarà utile al proprio cliente, congruente con la propria professionalità ed anche sereno nello svolgimento del proprio lavoro, senza portare “a casa” le tossine accumulate durante gli incontri della giornata. In proposito ho già pubblicato degli articoli in passato, e a breve cercherò di scrivere ancora qualcosa in merito.
Nota:
¹ Interazioni metodologiche fra counseling e tecniche di respirazione interna o Innerbreathing, di Antonio Franco.
L’immagine dell’articolo è di Massimo Cavezzali, in arte Cavez.