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Dopo aver letto la paginetta di istruzioni, clicco sul pulsante che dà inizio al test. Qualche domanda di contesto – che sarei peraltro autorizzato a saltare (What is your political identity? – Moderately liberal, scelgo tra le opzioni) e si parte. Sul monitor compare una serie di volti, alcuni di bianchi, altri di neri. Il mio compito è di premere un pulsante sulla destra o uno a sinistra, senza pensarci troppo a lungo, a seconda che la pelle sia di un colore o dell’altro. Niente di troppo complicato, per uno venuto su a pane e marzianini. Ora invece mi viene presentata una batteria di termini (gioioso, fallimento, bello, antipatico) che questa volta devo assegnare alle categorie buono/cattivo, di nuovo cliccando su uno dei due pulsanti. Tutto qui? Comincio a chiedermi dove sia il trucco: che mi stiano prendendo in giro? Il compito successivo, però, si presenta già un po’ più complesso. Questa volta possono alternarsi irregolarmente parole e volti, e il mio incarico è di premere il pulsante a sinistra se riconosco o un nero, o un termine “cattivo”, quello destro se vedo o un volto bianco, o un termine “buono”. Il compito è cognitivamente un po’ più impegnativo, ma il suo svolgimento rimane sufficientemente fluido.
Quand’ecco il colpo di scena. Mi viene chiesto di cliccare a sinistra se incontro o un volto nero, o un termine “buono”. A destra quando riconosco o un volto bianco, o un termine “cattivo”. Prima ancora di riflettere sulla novità, sento subito che c’è qualcosa che non va. Il processo di categorizzazione si inceppa, e nella fretta commetto più di un errore (che il computer gelidamente mi segnala). Più rivelatrice ancora, la netta percezione che questa volta per rispondere ho bisogno di più tempo che per il task precedente.
Purtroppo siamo meno aperti di quanto crediamo
Al termine del test, il verdetto mi sorprende, anzi un po’ mi indigna. Sarò anche, come mi dichiaro, moderately liberal, ma il test suggerisce senza troppa empatia che presento invece una moderata associazione implicita tra bianco e “buono”, e tra nero e “cattivo”. Detto più brutalmente, questa associazione inconsapevole rivelerebbe una sensibile preferenza per i bianchi rispetto ai neri, anche se la mia mente cosciente non rivela, per quanto possa esaminarla, alcun orientamento di questo tipo. Ohibò, sono forse razzista?
Siamo liberi dai pregiudizi?
Da quando mi ci sono misurato la prima volta, ormai diversi anni fa (tornando periodicamente come San Tommaso a mettere il dito nella piaga) ho dovuto ricredermi sull’idea che possiamo essere veramente liberi da pregiudizi. Lo IAT (Implicit Association Test), sviluppato da Mahzarin Banaji e Anthony Greenwald, nella versione resa disponibile online, tra gli altri, da Harvard, ha ricevuto ormai diversi milioni di visitatori. Nata per indagare le attitudini rispetto alla dicotomia di cui sopra, la metodologia si è dimostrata tanto potente da suggerire di estendere il test ad altri temi su cui, nelle nostre menti, ospitiamo pregiudizi sommersi. Pur nella convinzione, in perfetta buona fede, di essere assolutamente equanimi. Così troviamo anche test riguardanti gender e carriera, obesi vs. magri, gay/etero, disabili contro normodotati, arabi musulmani vs. resto del mondo, più altre nove diadi. Un tour completo, che garantisce a chi lo provi – parlo per esperienza diretta – un buon bagno di umiltà intellettuale.
Ma da dove origina le sue conclusioni questa macchina infernale, che mi accusa di presunto pregiudizio, ancorché involontario? Il test, in realtà, non si basa, come invece molti altri, su risposte meditate e ponderate; quelle che avrei dato, per intenderci, se mi avesse lasciato il giusto tempo per pensarci. Viceversa, giocando sulla velocità che ci viene imposta nel cliccare sui pulsanti, sollecita invece il tipo di reazioni immediate che esprimiamo quando ci troviamo in modalità “pilota automatico”. Sotto queste condizioni, quando uno dei task ci forza a considerare insieme i concetti di nero e cattivo, i tempi di risposta dipenderanno dal fatto che una simile associazione esista già, e da quanto sia ben radicata, nel nostro cervello. Nel qual caso, dati i meccanismi associativi della mente, l’operazione richiederà tempi relativamente brevi. Ma, se questo è vero, in un task successivo che vi chieda di considerare contemporaneamente nero e buono, la vostra mente rallenterà percettibilmente – se non altro perché sarà obbligata a disfare temporaneamente l’associazione già codificata nei vostri circuiti neurali, prima di completare l’operazione. Semplice, non vi sembra?
Bene. Ma, ciò appurato, alla fine dei conti, sono razzista, oppure no?
Se ponessi la questione a una combriccola di psicologi, come potete immaginare, riceverei tante risposte diverse quante sono le loro teste – e forse di più. Oltre ad essere intrinsecamente questionabile, il tema porta con sé un pesantissimo fardello emotivo, politico, sociale e ideologico, specialmente di questi tempi. Ragione per cui non provo nemmeno a darvi la mia risposta – oltre tutto, sarei anche in conflitto di interessi. Piuttosto, vi propongo uno sguardo più obliquo, che si focalizza sul ruolo di quelli che sono chiamati cognitive bias, e di cui dirò tra breve. Ma ecco intanto qualche informazione aggiuntiva utile alla causa.
Per cominciare, i rispondenti al test, tanto bianchi quanto neri, sono risultati entrambi piuttosto inclini a manifestare, in misura maggiore o minore, implicite preferenze in favore dei rispettivi gruppi. Né troppo dissimili sono le risultanze per gli altri test cui ho accennato, dalle associazioni genere/carriera ai pregiudizi tra arabi musulmani e gli altri.
Queste risultanze trovano un riflesso neurale interessante quando al test vengono affiancati strumenti di brain imaging, che consentono di rilevare le relative attività cerebrali. Le persone che associano volti neri a “cattivo” mostrano ad esempio una accresciuta attività dell’amigdala, area del cervello notoriamente associata ad un innalzamento della vigilanza e alla paura.
Sorprendentemente, persino i bambini di 6 anni, sottoposti ad una versione speciale dello IAT appositamente sviluppata per l’infanzia, mostrano lo stesso tipo di bias razziali degli adulti. E, – giusto per non farci mancare niente – una versione ancora più speciale del test (a base di frutta – buono – e ragni – cattivo) suggerisce che persino le scimmie siano propense ad associare l’idea di buono ai membri del loro stesso gruppo, affibbiando agli esterni connotazioni negative.
L’appartenenza al gruppo sembra il fattore determinante
E noi proprio qui volevamo arrivare. Un’idea interessante è infatti che l’elemento comune a questi dati non sia infatti l’appartenenza etnica, o di genere, o professionale, bensì l’appartenenza tout court: ciò che, in psicologia, prende la denominazione di “in-group bias”. Ma che cos’è un bias? E che significa in-group?
Brevemente, un bias (più precisamente cognitive bias) è un errore di giudizio, una distorsione del ragionamento o del comportamento razionale, che infesta quotidianamente le nostre esistenze personali e lavorative. È un tipo di errore che non guarda in faccia a nessuno, dilettanti ed esperti che siamo. Che ci trascina tutti nella stessa direzione, in modo sistematico e non casuale. Infine (e questo è un aspetto particolarmente importante) è un tipo di trappola che ci cattura senza assolutamente che ce ne accorgiamo. Facendoci per di più apparire questi errori come cose in fondo di buon senso, anche quando qualcuno ci obbliga a riconoscere che sì, sono proprio errori. Si tratta di lupi travestiti da agnelli: i naviganti prestino attenzione!
L’in-group bias è uno di questi errori: una preferenza, inconscia ma molto reale, specialmente negli effetti assai concreti che produce, che divide il mondo tra persone in-group, e persone out-group – interni o esterni a ciò che consideriamo il nostro gruppo. Riservando ai primi un chiaro trattamento di favore; e ai secondi, indovinate un po’, discriminazione ed esclusione.
Non c’è limite a ciò che siamo in grado di considerare “group” per attivare il bias: etnia, gender, fascia di età, squadra di calcio, cultura, marca di motociclette. Persino quando dividiamo i partecipanti a un’aula di formazione in team per un’esercitazione di qualche ora, stiamo creando le condizioni per il manifestarsi dell’in-group bias.
Come tutti i bias, l’in-group bias è universale: siamo tutti, in misura più o meno forte, vittime della sua influenza. Ed è sistematico: le preferenze puntano sempre verso l’in-, piuttosto che in direzione out-. Ma l’aspetto che lo rende davvero pericoloso, specialmente nei contesti organizzativi, e nella società in senso ampio, è, come anticipavamo, il fatto che esso esercita il suo influsso senza che ce ne accorgiamo. Passa sotto il livello della nostra coscienza. E può tradursi in comportamenti, da parte nostra, discriminatori o di esclusione senza che possiamo minimamente immaginare di esserne gli autori.
I vantaggi evolutivi dell’in-group bias
C’è da domandarsi da dove salti fuori questo bias. In presenza di questo tipo di errori, la psicologia evoluzionistica tende ad indagare se per caso, in tempi assai lontani, essi abbiano potuto costituire un vantaggio per la sopravvivenza dei nostri pro-pro-pro-ecc.-genitori nel loro ambiente di allora. Il che spiegherebbe eventualmente come la configurazione genetica che li favoriva si sia potuta competitivamente affermare tra i discendenti.
Un’ipotesi suggestiva è che una stretta preferenza per le persone più vicine (ad esempio quelle della stessa tribù) sia stata importante nel favorire la cooperazione tra i membri, che si è rivelata necessaria per sviluppare il livello di civiltà che oggi conosciamo. Se fossimo tutti orientati al massimo egoismo, come alcune vulgate darwinane adombrano, non riusciremmo a rinunciare a una parte delle nostre prerogative per perseguire obiettivi più alti del gruppo di cui siamo parte. È il problema della cooperazione (il conflitto Io vs. Noi). Comportamenti come quelli sollecitati dall’in-group bias favoriscono, come possiamo immaginare, coesione sociale e cooperazione, ed è facile che siano stati premiati dall’evoluzione (c’è chi ritiene che un intero sistema di istinti morali si sia evoluto con questa finalità). D’altra parte, per ragioni legate ai meccanismi della selezione naturale, che non abbiamo lo spazio qui per discutere, gli stessi comportamenti che servono a rafforzare la cooperazione in-group tendono invece ad esasperare le discriminazioni e le esclusioni out-group (il conflitto Noi vs. Loro). Come abbiamo modo di notare tutti i giorni in tutto il mondo.
L’in-group è soltanto uno dei molteplici bias che lavorano al di sotto del livello della coscienza per produrre pregiudizio e discriminazione anche al di là dei meccanismi che operano, per così dire, alla luce del sole (per gli altri bias, vi aspetto ai miei corsi, ça va sans dire). Ci fa intuire che ciò di cui parliamo quando parliamo di discriminazione, è solo la parte visibile (la classica punta dell’iceberg) di un fenomeno carsico che corre sotto il livello della nostra consapevolezza. Ma, se le cose stanno in questo modo, qual è il meccanismo con cui questi bias si traducono in comportamenti di discriminazione o inclusione? È un problema di natura umana, o anche di cultura? E, soprattutto, cosa possiamo fare per ridurre il loro impatto su noi stessi e nelle nostre organizzazioni?
Ne parleremo nel prossimo articolo.
Photo by Matheus Viana