L’aneddoto riguarda l’atteggiamento individuale verso il lavoro.
Ecco tre differenti risposte, date da tre lavoratori, ai quali venne chiesto che cosa stessero facendo:
«Non lo vedi – rispose il primo – curvo e sudato sotto il peso di una grossa pietra, sudo e fatico in questo durissimo lavoro».
Il secondo, rialzandosi sulle reni dolenti, disse: «Lavoro, per guadagnarmi il pane quotidiano e mantenere con stento la mia famiglia».
Il terzo, volgendo lo sguardo al lavoro già compiuto per quanto anch’egli stanco e sudato, ebbe la forza di un sorriso di compiacimento; «Ecco – rispose – stiamo costruendo una bella cattedrale».
Il primo, non sentiva del lavoro che l’aspra condanna della fatica.
Il secondo, sentiva nel lavoro il prezzo del guadagnarsi da vivere e mantenere la propria famiglia.
Il terzo, oltre ad avvertire la fatica e apprezzare il guadagno, percepiva la bellezza dell’opera alla quale contribuiva col proprio lavoro. Sono tutte cattedrali le opere del lavoro, anche le più modeste.
Dietro queste tre differenti risposte ci sono:
– diverso atteggiamento motivazionale
– diversa etica del lavoro.
Istintivamente, tutti consideriamo preferibile il terzo atteggiamento, in termini sia sociali sia individuali, anche se il panorama demoscopico ci dice che l’opzione diffusa è assai differenziata.
Noi cosa possiamo fare per favorire un’etica del lavoro che consenta di vedere e valorizzare ciò che sta dentro e intorno alla fatica e al guadagno?
Cosa deve fare il coach per se stesso come professionista e come deve interpretare il suo ruolo verso il suo utente?
La formazione può incidere sull’atteggiamento verso il lavoro o è solo uno strumento per accrescere le abilità?