La crescente complessità del contesto, la frammentarietà dell’esperienza che comporta il cambiamento continuo, l’ingorgo informativo a cui si è costantemente sottoposti, creano condizioni di sovraccarico emozionale e di fondo un senso di incertezza che spesso attiva modalità difensive rispetto ad un diffuso, per lo più inconsapevole, sentimento di inadeguatezza.
Il singolo si trova inoltre a fronteggiare tutto ciò a partire da un substrato culturale che ha potenziato enormemente l’individualismo, che ha gradualmente valorizzato la competitività e il controllo che lo indirizzano a far leva sostanzialmente sulle proprie forze.
Questo quadro è in parte alla base di modalità esasperate di reazione (femminicidio, suicidio e atti violenti di varia natura) che sono effetto di una rabbia, utile a tacitare, almeno momentaneamente, il senso di impotenza che si accompagna invece più naturalmente alla paura.
In molte persone questo fortunatamente diventa invece la spinta alla ricerca di una relazione di aiuto sotto varie forme (psicoanalisi, psicoterapia, counseling, life coaching, mentoring, coaching).
Nelle organizzazioni, in particolare nelle aziende, l’esigenza di sostenere il cambiamento e l’incremento/ aggiornamento di competenze che comporta si traduce in interventi organici di sviluppo delle risorse individuali utili a governare al meglio ciò che l’evoluzione del business richiede nei ruoli ricoperti, dando supporto a persone che si ritengono “strategiche” o su cui comunque intende investire.
I ruoli sia manageriali che professionali sono infatti sempre più articolati e spesso gravosi, stante l’appiattimento e lo “snellimento” delle strutture che comporta cambiamenti talora sostanziali di contesti, culture e attività, quindi di competenze: chi li ricopre si trova pertanto a “fare come se” sapesse far fronte alle richieste aziendali ma di fatto “navigando a vista”, con gradi di incertezza a volte generatori di elevati livelli di ansie… inconfessabili.
Si colloca il questo quadro il ricorso al coaching e al mentoring , come supporti personalizzati utile a mettere in grado il singolo ad adattarsi al nuovo
Sembra quindi utile mettere in luce le specificità di questi diversi strumenti di supporto alle persone in una straordinaria quanto impegnativa fase di transizione dal paradigma “garantista” in cui il singolo era prevalentemente etero diretto in conformità a indirizzi esistenziali preordinati e rassicuranti ( matrimonio e posto sicuro per l’intero arco lavorativo) ad un paradigma potenzialmente co-evolutivo in cui l’iniziativa anche dirompente del singolo è fattore determinante dei processi sociali che a loro volta producono nuove possibilità (si pensi all’inventore di Facebook o alla “rottura” di Marchionne con Confindustria): non a caso si insiste in più ambiti sulla innovazione come leva di sviluppo sia personale che sociale.
Risulta peraltro evidente come il supporto al singolo sia strategico per la tenuta sociale nel lungo termine.
I fattori comuni a tutti i supporti alla persona sono due ovvero:
- a) la relazione ed in particolare la cosiddetta relazione d’aiuto, ovvero uno scambio che ha come leva fondamentale l’ascolto empatico da parte di chi dà supporto, necessario ad attivare la fiducia.
- b) il patto psicologico ovvero una condivisa identificazione degli obiettivi del percorso, fondamentale a stimolare la corresponsabilizzazione.
Esistono però differenze sostanziali in rapporto all’ambito di applicazione in rapporto a tre fattori: contesto, movente, finalità.
Nella mia esperienza esiste un crinale dirimente: è il contesto, che implica diversi moventi ovvero spinte che generano l’intervento e le sue finalità.
Vediamo quindi le differenze tra i supporti richiesti dalla persona e quelli richiesti da un’organizzazione.
Quando la richiesta parte da una esigenza personale e in ambito privato, l’intervento è di tipo terapeutico e in qualunque forma si prospetti, il movente è un disagio, un bisogno insoddisfatto e/o una sofferenza che spesso comporta sintomi ( ansia, depressione, fobie etc.) più o meno gravi o invalidanti: la finalità è in questo caso gestire e trasformare la sofferenza riorientando l’energia ostacolata da blocchi interni verso l’espressione e possibilmente l’espansione delle risorse personali al servizio della realizzazione del progetto esistenziale della persona. Un percorso di terapia psicologico è sostanzialmente un processo di presa di coscienza, di “risveglio” della consapevolezza che porta gradualmente a rispondere alla domanda: ”chi sono io?” in onore al noto monito greco ”conosci te stesso”.
Con una metafora si può dire che serve in primis ad identificare i “fili” che ci rendono “automatici” come marionette in mano a un burattinaio: e chi sarebbe?
La personalità, il carattere, da molti detto anche Ego, ovvero una struttura che si va facendo ed alimentando dall’infanzia in reazione alle frustrazioni e, di fondo, ad un vuoto d’amore reale o percepito: essendo reattivo ha una funzione prevalentemente difensiva che si traduce in comportamenti in parte utili ma talora distruttivi per sé e/o per gli altri e in genere limitanti in quanto, essendo effetti di schemi rigidi, sono spesso inadeguati a quel che serve nel “qui e ora”, producendo sofferenza.
E’ infatti la sofferenza ciò che spinge a richiedere un intervento di questo tipo, un counseling che serve a focalizzare e superare i blocchi connessi sostanzialmente a conflitti tra istanze razionali, affettive e istintuali. La meta è quindi realizzare l’integrazione tra i nostri vari aspetti intrapsichici portando ad espressione una naturale amorevolezza per se e per gli altri che si traduce in una esistenza soddisfacente in quanto espressione della propria autenticità.
Claudio Naranjo sostiene che “quando una persona giunge alla maturità incontra il piacere di sentire di esistere”.
In estrema sintesi e al livello più profondo è un percorso finalizzato alla ricerca di senso del proprio esistere per poterlo realizzare nel concreto vivere: e questo può richiedere un percorso “lungo” (di alcuni anni) che può essere guidato secondo metodologie diverse (psicoanalitica, bioenergetica, cognitiva, comportamentale, sistemica, gestaltica, transazionale etc).
Con le stesse metodologie l’intervento può però anche essere focalizzato su qualche aspetto più circoscritto: la gestione e il superamento di un problema di relazione (di coppia, genitoriale, lavorativo) o di trauma (un incidente, un lutto, una separazione, una malattia), o ancora di una transizione esistenziale (come l’adolescenza, la maternità o la menopausa). In tal caso si può ricorrere ad una terapia focale o ad un intervento di counseling, comunque un percorso “breve” (di alcuni mesi). In questo caso il percorso è finalizzato ad un miglior adattamento della persona ampliando le opzioni e quindi le modalità di gestione delle condizioni problematiche originario. Ciò differenzia le due modalità di lavoro rispetto a questa finalità è il profilo professionale di chi dà supporto, che ha seguito un percorso formativo per psicoterapeuti piuttosto che per counselors, e su cui in questa sede non riteniamo utile addentrarci.
“Il presupposto perché il counseling possa avere successo è che la persona che richiede l’aiuto abbia una struttura della personalità sufficientemente salda, anche se magari momentaneamente in disequilibrio. Il counseling ha lo scopo di “abilitare” il cliente a prendere delle decisioni di carattere personale che egli vive in modo problematico, ma non è indicato per risolvere disturbi strutturali della personalità, che necessitano di una ristrutturazione globale “(Burnett, 1971).
Vediamo ora quando la richiesta parte da un’organizzazione: in questo contesto l’intervento è finalizzato alla ottimale gestione di un ruolo attuale o potenziale. Il movente è un gap di competenze necessarie a realizzare una performance attesa. La finalità è quindi il potenziamento della persona rispetto alle capacità a ciò connesse, in particolare quelle “critiche” nel duplice senso di essere determinanti rispetto alle responsabilità che gestisce ( o dovrà gestire in un percorso di sviluppo) ed essere state riscontrate (tramite metodi di rilevazione come l’assessment o tramite i risultati di performance) insufficienti alle esigenze connesse a queste responsabilità.
In tale contesto la gestione dell’intervento coinvolge tre poli: il committente, l’utente la persona il sviluppo) e il consulente (non terapeuta quindi) laddove il committente è un polo che può ulteriormente articolarsi in Vertice/Direzione, Servizio/Funzione Personale e capo/linea gerarchica.
Ciò rende molto “delicata” la gestione da parte del ruolo di consulente sia della relazione che del patto psicologico: cruciale è infatti negoziare i gradi di “protezione” del percorso, necessari ad attivare una relazione di fiducia in presenza di interessi disomogenei che serve condurre ad una convergenza/compatibilità utile a produrre effetti osservabili e incisivi sulla performance.
Gli strumenti più utilizzati rispetto a questo scopo sono il counseling, il coaching e il mentoring. Del counseling abbiamo detto: come il coaching può essere richiesto anche come supporto privato, ma in questa sede intendiamo occuparci delle loro applicazioni più in uso, che vedono progressivamente il ricorso al counseling da parte dei singoli e al coaching da parte delle aziende.
Il coaching è un termine con diverse accezioni: deriva da coach ovvero carrozza, che allude ad un trasferimento in questo caso, di competenze. La prima accezione è entrata in uso in ambito sportivo dove definisce l’ allenatore. Si è poi estesa in ambito organizzativo riferendosi al capo che si pone come stimolo al miglioramento delle competenze del collaboratore rispetto alle sfide del ruolo. E’ infine stato traslato ad un ruolo di supporto esterno affiancando o sostituendo alla componente “tecnica” una componente “psicologica” finalizzata a mettere in moto dei processi di auto-organizzazione che consentano alla persona coinvolta di scoprire e/o rafforzare le sue potenzialità, per valorizzare appieno le sue capacità nel gestire attività, problemi ed eventuali sfide, in linea con le attese organizzative.
In questa ultima modalità l’azione del coach è prevalentemente relazionale: la leva è il processo che si attiva tramite lo scambio che in genere si articola in un percorso breve, predefinito nella durata e negli effetti richiesti, ma attribuisce un’ampia discrezionalità al coach nella scelta delle modalità di conduzione.
Presupposto di partenza è che ogni persona abbia delle potenzialità latenti: l’obiettivo del coach è quello di scoprirle e stimolare il cliente ad utilizzarle, trovando insieme il come farlo, accompagnando la persona verso il massimo rendimento attraverso un processo autonomo di apprendimento.
Cruciali in questo percorso sono:
- la definizione degli obiettivi in modo osservabile, quindi tradotti in comportamenti/ indicatori della capacità in atto: a questo scopo l’approccio che si sta rivelando più efficace è quello “orientato alla soluzione ( non al problema) che cioè stimola, con domande, l’immaginarsi “come se “ si fosse già superata la mancanza da colmare
- la definizione di un piano d’azione che identifichi anche le situazioni/palestra ovvero le occasioni operative in cui adottare nuove modalità emerse dallo scambio con il coach, quindi dall’analisi ed elaborazione delle situazioni problematiche, tramite tecniche specifiche (dialogo, role play, questionari di auto-diagnosi etc.)
- la individuazione di eventuali supporti (feed back del capo, cosi di formazione mirati, letture, film etc)
- la determinazione dei tempi e delle modalità di verifica .
- I livelli di lavoro del coach possono peraltro essere a diverse profondità, a seconda della difficoltà del coachee, estendendosi, oltre agli schemi comportamentali e alle conoscenze pertinenti alle competenze da sviluppare, anche alle emozioni, alle convinzioni e ai valori.
Ma va detto con chiarezza che il coaching non è un surrogato di una psicoterapia, come consegue dalla differente dinamica connessa ai tre aspetti dirimenti: il contesto, il movente e la finalità
Nella terapia il contesto è privato, il movente è un bisogno personale quindi auto-diretto, la finalità è l’integrazione delle diverse componenti intrapsichiche, che può richiedere una elaborazione della storia individuale. Nel coaching aziendale il contesto è sociale, il movente è inizialmente etero diretto, (se pure poi debba necessariamente essere introiettato da chi ne fruisce) , focalizzato ad una esigenza contingente , circoscritta all’ambito professionale e la finalità è produrre effetti operativi riscontrabili: ciò non esclude eventuali elaborazioni di eventi/relazioni anche personali, che però non rappresentano un elemento caratterizzante questo tipo di intervento. Va detto che un tipo di coachig(life coaching ), richiesto da alcuni in ambito privato, ha invece un movente auto diretto ma è comunque focalizzato sullo sviluppare specifiche abilità( esempio la seduzione).
Ultimo in ordine di apparizione nello scenario organizzativo, ma non ultimo per utilità è il mentoring che prevede una relazione tra una persona interna all’azienda con una consistente esperienza sia del contesto che manageriale in grado di assolvere per una persona in crescita tre funzioni principali: fornire un modello di riferimento, un’opportunità di sostegno psicologico in momenti critici del suo sviluppo e una guida alla sua ottimale integrazione nel tessuto relazionale e culturale dell’organizzazione. È una relazione che poggia su un rapporto di fiducia e di reciproca disponibilità all’ascolto. “Il mentoring può essere definito una relazione di coppia che assume la forma di colloqui periodici per lo più situati in un orizzonte temporale compreso tra uno e due anni, in cui uno dei due soggetti mette a disposizione la propria esperienza e conoscenza al fine di guidare e sostenere l’altro in un percorso di apprendimento e crescita in particolari momenti della sua esperienza professionale che corrispondono a significative transizioni o richiedono lo sviluppo del suo patrimonio di conoscenze” (Piccardo, 1998, p.37).
Ha come movente l’intento aziendale di orientare e sostenere lo sviluppo professionale e di carriera, di “favorire la crescita professionale dell’ “allievo”, che è messo in grado di trarre dalle occasioni professionali offerte il massimo apprendimento e al tempo stesso di imparare sull’esempio di una persona di successo (Cecchinato e Di Pietro, 1998): la finalità in sintesi è di fargli acquisire una identità professionale percepita da se e dagli altri come consistente e credibile.
Il mentore, che riprende il nome di chi ha preso in carico Telemaco, su richiesta del padre Ulisse in partenza per il suo mitico viaggio, ha però da sentire una reale motivazione a questo incarico per garantire uno scambio generativo per entrambi: sul piano pratico è utile (come per Telemaco) che sia fuori dalla “famiglia professionale” dell’ ”allievo”, sia per evitare dinamiche competitive colla linea gerarchica dello stesso, sia per poter dare un punto di vista realmente diverso , su situazioni problematiche, più facilmente producibile se viste dall’esterno.
Concludendo è opportuno cogliere come la dimensione emozionale, tramite tutti questi strumenti sia stata rivalutata come leva di cambiamento, dalla cultura sociale ed organizzativa, rispetto alle quali l’approccio razionale dominante l’aveva a lungo messa in sordina.