Gli errori possono essere un potente generatore di miglioramenti del clima e della produttività aziendale. Ma non tutti gli errori! E nemmeno tutti i modi di gestirli!
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Nel precedente articolo abbiamo raccontato come l’errore (non chiamiamolo “colpa” per carità, è una parola ed un concetto che nulla hanno a che fare con il contesto aziendale! Abbiamo bisogno del vocabolario giusto) non è infatti un fallimento da nascondere come polvere sotto il tappeto ma una straordinaria occasione per imparare a fare meglio.
Eppure… alzino la mano i genitori che si sentono orgogliosi quando un figlio porta a casa un brutto voto o i manager che incoraggiano i collaboratori a sperimentare assumendosi il rischio di sbagliare. Purtroppo veniamo tutti dalla matita rossa e blu della professoressa: l’assenza di errori distingue chi è bravo da chi non lo è, e in azienda le cose di solito non vanno diversamente, anche se qualche segnale di cambiamento si intravvede qua e là: meglio sbagliare subito così capiamo prima e possiamo correggere il tiro, innovando velocemente e bene. In qualche azienda (soprattutto americana) addirittura si premiano i fallimenti con celebrazioni dedicate e iniziano a comparire corsi di formazione e vere e proprie scuole del fallimento (anche in Italia!).
Le neuroscienze e la psicologia purtroppo però ci confermano che il nostro cervello è programmato in modo tale da renderci spesso:
- inconsapevoli dei nostri errori,
- riluttanti a capire che è necessario modificare una decisione già presa
- e con una innata spinta a preservare l’autostima.
Anche i social media con la loro natura voyeuristica stanno incrementando la nostra difficoltà a condividere i fallimenti con gli altri. Il rischio di deludere il proprio responsabile scatena nel cervello la paura di essere espulsi dalla tribù, una realtà che moltissimi anni fa poteva significare morire di fame, ma oggi quando evitiamo di parlare di un errore il nostro team viene privato di una preziosa occasione di apprendimento e dell’opportunità di evitare errori evitabili.
Il primo errore
Certamente il primo errore è quello di considerare gli errori tutti uguali!
Amy Edmonson, docente ad Harvard, nel suo straordinario libro “Il giusto errore” distingue tre diversi tipi di errore:
- Gli errori “elementari” (non rispettiamo una norma antinfortunistica, scambiamo una provetta in laboratorio) che derivano da disattenzione, stanchezza, negligenza, incompetenza, eccessiva sicurezza (“ho sempre fatto così”) e devono essere solamente prevenuti.
- Gli errori “complessi” (di cui sono sempre più piene le cronache nere) che come quelli elementari, non sono il giusto tipo di errore. Si distinguono per avere più di una causa, anche se a nessuna presa singolarmente può essere ricondotto l’errore stesso. Abbiamo la possibilità e anzi dobbiamo prevenirli anche se i segnali di avvertimento spesso ci sfuggono.
- Gli errori “intelligenti”, che sono la strada maestra verso la scoperta e l’innovazione (per questo non devono essere “insabbiati”). Se non esistessero faremmo le stesse cose sempre allo stesso modo. Non esisterebbe la scienza.
Come riconoscere gli errore intelligenti dagli altri
Negli errori intelligenti abbiamo la compresenza di diversi elementi: un contesto nuovo e che presenta grandi opportunità, conoscenze disponibili ma anche ipotesi sui cui sperimentare, buon rapporto tra la dimensione dell’errore e l’utilità. Un esempio? Alla Dallara automobili, un’eccellenza italiana nel mondo, tutta l’innovazione si basa sull’errore, attraverso un simulatore di guida estremamente avanzato che consente di guidare automobili ancora non prodotte per sbagliare molto, molto velocemente e a basso costo.
Laddove al contrario chi è sopra ha l’aspettativa di “errori zero” e ha il potere di punire chi è sotto, a dominare è la paura che diventa cultura a scapito della sperimentazione, dell’apprendimento e dell’innovazione.
Uno degli elementi che distingue una buona da una cattiva squadra, come numerosi esperimenti hanno dimostrato (ad esempio in sala operatoria o in cabina di pilotaggio di un aereo), non è il numero di errori commessi dai singoli membri ma il numero di errori a livello di team. In pratica, lavorando bene insieme la squadra coglie e corregge in tempo gli errori del singolo evitando guai. I team e le organizzazioni con una maggiore sicurezza psicologica sanno che gli errori sono argomenti di cui si può parlare, che possono chiedere aiuto quando sono oberati di lavoro o comunque in difficoltà e che possono segnalare gli errori (senza una deleteria caccia al colpevole) per scongiurare esiti peggiori.
Cosa succede invece quando i manager dichiarano perentoriamente che gli errori non sono ammessi? Questi ultimi certamente non si azzerano ma semplicemente rimangono sommersi!
Una piccola riflessione
Dove si colloca il vostro usuale modo di lavorare (e quello del vostro team… e della vostra azienda…) nell’ambito di questo schema? (rielaborazione da Amy Edmonson, op.cit., dove per sicurezza alta o bassa si intende quella psicologica)
I pensieri killer del miglioramento
da evitare assolutamente, eccoli:
- “La prossima volta mi impegnerò di più”: in questo modo si salta l’analisi di quanto successo. Al contrario, è fondamentale riflettere su cosa non ha funzionato e quali sono state le possibili cause.
- “Non ha funzionato, proverò qualcos’altro”: in questo modo l’analisi è estremamente superficiale. Al contrario, bisogna analizzare quanto hanno da suggerire le varie cause dell’errore circa l’azione successiva da compiere.
- “Avevo ragione, ma qualcuno o qualcos’altro ha rovinato tutto”: in questo modo l’analisi è autoassolutoria. Al contrario, si deve andare a fondo per comprendere e accettare il nostro contributo all’errore.
La curiosità ed il desiderio di capire sono quindi le parole d’ordine del/della professionista e dei team che hanno un rapporto sano con l’errore.