Nei tanti anni passati ad affiancare imprese e imprenditori per aiutarli a trovare le giuste soluzioni alle loro problematiche aziendali, spesso mi sono trovato a fare il coach del capo dell’azienda.
Ricordo un grand’uomo, editore giornalista imprenditore di profonda cultura e con uno spiccato “ego” personale, che aveva l’abitudine di passare ogni domenica pomeriggio lunghe ore di solitario e proficuo lavoro nel suo ufficio. Dove raccoglieva le idee, scriveva a importanti personaggi, tracciava progetti di grande spessore, talvolta anche utopistici, quasi che volesse trasformare i suoi sogni in realtà.
Ebbene, quasi tutte le domeniche avevamo la nostra telefonata. Mi raccontava idee – parole – espressioni – indagini – perorazioni che stava elaborando. Cose che non avrebbe condiviso con i collaboratori finché non le avesse perfezionate.
Non si trattava certo di consulenza, da parte mia. Anche perché di domande me ne poneva ben poche. E tanto meno sarei stato in grado di fornire a cotanto personaggio soluzioni e correzioni adatte.
Era l’azione catalizzante quella che voleva da me, e funzionava benissimo. Catalizzante nel senso chimico del termine, e cioè come mezzo reagente/reattivo che permette alla mente di trasformarsi, di elaborarsi, di spostarsi su un altro punto di vista, di combinarsi con altri elementi.
Al telefono, a chilometri di distanza, senza pudori né freni inibitori, di domenica in domenica tirava fuori ipotesi e alternative, si metteva in gioco e poi si rispondeva da solo, senza aspettarsi che lo facessi io.
La mia funzione? Fondamentalmente quella di esserci. In ascolto. Il resto lo faceva lui. E ogni volta concludeva avendo individuato e scelto le modalità e gli strumenti più idonei per perseguire i suoi obiettivi.