Utilizzare ≠ sfruttare.
Quando si ha a che fare con un manager, sia esso di una piccola impresa o di una grande multinazionale, è facile ed immediato comprendere e definire fin da subito ruoli e compiti.
Il manager utilizza il consulente esterno per le sue competenze e per la sua implicita esternità (perdonatemi il neologismo) alle tensioni interne, clima – dissidi – gelosie – lotte di carriera.
Si limita quindi a pensare al consulente come a un momentaneo strumento che, forse, è in grado di aiutarlo ad individuare soluzioni alle problematiche aziendali; o ad acquisire le capacità che gli mancano.
L’obiettivo è appropriarsi delle eventuali competenze/metodologie innovative del consulente e trasformarle in un arricchimento professionale proprio e/o dell’azienda.
Quindi vive questo rapporto con una notevole dose iniziale di scetticismo, come un’imposizione dettata dalle circostanze o da entità superiori, da utilizzare presto e bene per poi liberarsene nei tempi più brevi possibili. Per intenderci, cercando di trasformare rapidamente l’esternità utile all’azienda in estraneità utile al proprio ruolo.
L’imprenditore non ragiona quasi mai così. Perché parte da presupposti e vissuti diversi.
La sua scelta di interagire con un consulente, non di quelli specifici e specialistici come il legale o il commercialista o il progettista, nasce attraverso un atto di fede iniziale. Un incontro felice, spesso estraneo alla vita aziendale in un contesto non professionale, o il consiglio di un amico fidato, sono quasi sempre i presupposti di un’iniziale collaborazione.
Poi nasce il feeling, la sintonia, l’empatia, sempre filtrati attraverso l’ego e l’autostima dell’imprenditore, che mai si pone in antagonismo con il consulente.
Comunque è da lui considerato meno di sé: meno valido – meno competente – meno conoscitore di quel particolare mercato – meno furbo – meno intelligente e quant’altro.
Ecco che allora scatta, più o meno inconsapevolmente, quel verbo sfruttare, così sgradevole ma nella realtà così vero.
Il consulente, più o meno lentamente, si trasforma in coach, senza che l’imprenditore accetti di definirlo tale (neppure sotto tortura, perché ciò significherebbe comunque una diminutio del proprio status). Quindi strumento catalizzatore di colui che governa l’impresa, per metterlo in grado di fare scelte, trovare soluzioni, disegnare strategie, che l’imprenditore ha già ben precise in testa ma che non ha avuto ancora la forza o il tempo o addirittura la voglia di esplicitare per concretizzarle.
Spesso il consulente, nella mente dell’imprenditore, prende le sembianze del padre o del figlio o del fratello che lui avrebbe voluto avere ma che crede di non riconoscere nel proprio padre o nel proprio figlio, che magari lavorano con lui in azienda.
Così il consulente/coach, si trasforma in confessore – consigliori – confidente, che, unico, è in grado di ricevere confidenze, di fornire pareri disinteressati, di mantenere i segreti più reconditi.
Ma come tutte le storie, vere o di fantasia, anche questa volta c’è un finale, più o meno vicino nel tempo.
Dopo essere stato così brillantemente e intelligentemente sfruttato (magari anche inconsapevolmente) il consulente viene gettato via: perché la sua funzione di specchio è diventata scomoda, perché può diventare una presenza ingombrante o più semplicemente perché l’imprenditore si è liberato del suo problema e può ormai dire, parafrasando Roberto Vecchioni in Due giornate fiorentine “guarda, non è bello il mio lupo?”.
L’immagine che introduce questo articolo è “Contemporary City”, acrilico su tela dell’artista serbo Marko Gavrilovic.