Quando un’associazione, che ha affidato la direzione a un factotum dotato di troppi poteri, decide di affiancargli un consulente/coach, al fine di indirizzarlo verso sani principi ed obiettivi di business, che cosa può succedere?
L’obiettivo dichiarato, e condiviso dall’interessato, era la sua crescita personale -ovviamente in termini di statura professionale- al fine di gestire in modo sempre più brillante l’associazione stessa. Quindi inizialmente ne ho sollecitato la fantasia e la creatività, per facilitare la sua ricerca di nuovi sbocchi produttivi e/o commerciali per tutti gli associati. Dopo due incontri era chiaro che non era interessato a sviluppare idee o acquisire tecniche per farle sviluppare ad altri.
Allora è emerso che si poteva puntare sulla crescita delle sue competenze manageriali. In parte fornendo strumenti e metodi di controllo, in parte valorizzando la sua storia professionale, per far emergere capacità e potenzialità latenti. Ma dopo un paio di puntate, fatte di esercizi sulla pianificazione e sulla presa di decisione, sulla delega e sul controllo, si è capito che nemmeno questo gli interessava realmente. Mi ha fatto capire che desiderava qualcosa di più concreto.
Ho smesso i panni del coach per indossare quelli del consulente, e ho cominciato a illustrargli come arrivare ad una corretta ottimizzazione dei costi, operativi e finanziari, nell’interesse degli associati. Qui ha fatto capire che stavo sul banale. E che era meglio posizionarsi su qualcosa di più alto profilo, come una efficace comunicazione degli obiettivi dell’associazione.
Torno a fare il coach, e attraverso le domande e gli esempi cerco di mettere a fuoco target, risorse, strumenti, argomenti, priorità… mentre nella mia testa coltivo immagini di mercato, di libera concorrenza, di crescita nel business, di autorevolezza e fecondità dell’organizzazione.
Purtroppo solo nella mia, di testa! Infine ho capito.
Niente vale, e invano combatto per aiutarlo, quando l’associazione in realtà si deve adeguare e sottostare a principi politici, clientelari, di poltrone, di potere.
Allora non servono più competenza – esperienza – coinvolgimento – costanza – rigore. E nemmeno flessibilità, adattamento, fiuto politico. Ma il criterio diventa … una tessera! Così il nostro coaching si è concluso, con pochissimo orgoglio da parte mia, con rassegnazione da parte dei soci che avevano promosso l’iniziativa, e con soddisfazione dell’interessato, che vedeva confermata la centralità delle sue competenze di base.