Vivere in un Paese diverso dal proprio è complicato. Per quanto la nuova esperienza sia interessante, per quanto si sia aperti alla novità e capaci di adattarsi, vivere all’estero comporta difficoltà logistiche, materiali, e soprattutto di comunicazione interculturale. Viverci, è diverso dall’andarci in vacanza, e magari addirittura in vacanza in un villaggio turistico, dove fanno il possibile per annullare le differenze culturali, perché l’obiettivo è fare sentire l’ospite a suo agio e fare in modo che torni con i suoi quattrini da spendere.
Anche lavorare con uno straniero è complicato, perché quello che a noi sembra ovvio per lui non lo è, e viceversa. Perché ogni cultura ha suoi rituali di accoglimento, modi di negoziare e gestire i conflitti, stili di educazione dei figli, ruolo della famiglia, ecc. e le incomprensioni che ne derivano possono causare disagi, malintesi e conflitti, fino alla perdita di opportunità professionali e di business.
Altrettanto vale per ogni gruppo di lavoro o di studio plurinazionale, dove l’efficacia della messa in comune delle idee e dei semilavorati dipende molto dalla sintonia fra le persone. E la sintonia fra le persone è più facile se si hanno delle cose in comune e se si è capaci di affrontare le differenze.
Questo è anche il tema centrale dell’integrazione dei migranti, del fare in modo che vengano accolti e che si facciano accogliere. Dove la necessità della figura del mediatore culturale rappresenta -paradossalmente- proprio il fallimento della comunicazione fra gli appartenenti ai diversi gruppi.
Cosa fa il coaching interculturale
Il coaching interculturale insegna a capire e gestire queste differenze, che nel mondo globalizzato si incontrano continuamente.
Attraverso percorsi specifici rispetto ad un determinato Paese, dove quindi si impara a vivere in Giappone piuttosto che in Portogallo, in Messico o in Svezia: a che ora si cena e in che modo, che cosa ci si aspetta da un capo, il ruolo della famiglia rispetto alla scuola o all’ambiente di lavoro, come ci si veste nelle diverse occasioni, come si saluta, come si conclude una riunione, come si gestisce una trattativa, quali differenze di genere sono considerate logiche, e altro ancora.
Oppure con un percorso di sensibilizzazione che porta a capire come il modo che ognuno di noi considera logico o naturale di impostare un dialogo o un rapporto, di trattare il capo o i collaboratori, di educare i figli, ecc. non è che uno dei tanti possibili modi di farlo. Ed è influenzato dalla cultura di appartenenza, che non è solo famiglia-ambiente sociale-studi effettuati-valori di riferimento, ma anche il Paese di appartenenza. Riuscire a vedere la propria cultura dal di fuori è il primo passaggio per vedere e leggere le culture degli altri, per accettarle e magari condividerle.
Sietar International è l’associazione di riferimento per questa disciplina.
Sul sito di Sietar Italia sono segnalate iniziative, convegni ed esperti del settore.
Segnalo qualche testo di riferimento per chi ha voglia di avvicinarsi al tema:
- Cultures and Organizations, di Hofstede, Hofstede e Minkov
- Global Leadership Practices: a Cross Cultural Management Perspective, di Gehrke e Claes
- Eurodiversity, di Simons
- Basic Concepts of Intercultural Communication: Pradigms. Principles and Practices, di Bennett
- Orientalism, di Said
- Sentinella (Sentry), di Brown, un racconto di fantascienza da cui sono tratte le frasi dell’immagine che apre questo articolo.