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Queste riflessioni sono di Letizia Navarino, psicoterapeuta, psicomotricista e psicologa dello sport. Trainer e responsabile del settore di Gestalt Sport Coaching nella nostra scuola.
L’ansia da prestazione è uno degli argomenti più gettonati all’interno dello sport. Spesso viene utilizzata come spiegazione di performance che non corrispondono alle aspettative da parte di atleti, tecnici e genitori.
Quand’è che possiamo definire il fenomeno che accade prima, durante e dopo la gara, ansia da prestazione?
Prima di tutto dobbiamo chiarire che cos’è l’ansia, differenziandola dalla paura.
Quest’ultima infatti è un’emozione universale importantissima in quanto ci permette di vivere. Se non provassimo paura attraverseremmo la strada senza controllare l’arrivo di una macchina. La paura ci dice che è presente un pericolo li davanti a noi oppure un rischio potenziale, che minaccia la nostra incolumità. Fisiologicamente attiva una serie di risposte che ci fanno muovere e agire nell’ambiente (la classica risposta flight or fight) per la nostra sopravvivenza. Dunque la paura porta al movimento del corpo nel presente del qui e ora.
La paura insieme all’attrazione e il coraggio, sono emozioni che sostengono la presenza alle situazioni e quindi anche quella di gara.
A tutti noi sarà capitato dopo una gara andata male di perdere un po’ il desiderio verso lo sport che stiamo praticando. Succede che se non centriamo l’obiettivo inziamo a mettere in discussione tutto il tempo che abbiamo impiegato per la preparazione, togliendo valore al processo che abbiamo vissuto prima della gara, impedendoci di riaffrontare con serenità un altro ciclo di allenamenti perché i nostri pensieri vanno sul “chi me lo fa fare”, “tanto poi..” ecc. In quei momenti è importante invece sostenere la nostra passione, il nostro desiderio di vivere ancora le esperienze che quell’attività ci regala. E’ fondamentale che l’attrazione (il desiderio) rimanga anche quando l’obiettivo che ci eravamo posti non viene raggiunto, decidendo tranquillamente di tornare a correre il giorno dopo.
In questo modo sosteniamo l’azione e non l’immobilità, la quale favorisce l’insorgenza di pensieri e lo spostamento verso il futuro.
Infatti la differenza tra paura e ansia per la gara è che nella prima sentiamo il cuore che batte (e meno male che lo fa!), le gambe che non stanno ferme insieme a qualcosa che si muove nella pancia. Tutto questo è buono perchè significa che il nostro organismo si sta preparando all’azione, con prudenza (non paralizzati!) essendo una situazione non conosciuta .
Ciò che ci permette di muoverci quando sentiamo paura è il coraggio, il quale può esitere solo se c’è la paura. L’atleta coraggioso infatti non è colui che non ha paura, ma quello che la sa riconoscere e accettare, prendere un bel respiro, trovare il coraggio (il cuore) e muoversi insieme ai suoi timori.
Quando andiamo in ansia invece percepiamo sensazioni di rigidità o di mollezza e/o di noia (ebbene sì anche la noia!), di paralisi, di scordinazione, di non presenza e non lucidità.
Siamo ansiosi perché è come se facessimo le prove su un palcoscenico arrivando alla conclusione che la prestazione non raggiunge uno standard richiesto (da chi poi?). Da qui la . preoccupazione per l’esito della gara. Il pericolo non è presente nel qui e ora, ma lo percepiamo nel futuro, staccandoci fisicamente ed emotivamente dal mondo. Lasciando il presente blocchiamo e irrigidiamo l’azione e quindi la sua efficacia tecnica. Diventando rigidi smettiamo di essere flessibili, creativi e pronti ad adattarci, e cos’ è una gara se non la miglior espressione di un adattamento psicofisico a una situazione? Spostando l’attenzione nel futuro entriamo in contatto con un pensiero, una fantasia e viviamo l’esperienza dello smarrimento e dell’incertezza.
Per questo motivo più che un’ansia da prestazione possiamo parlare di ansia dell’azione, perchè è l’azione che viene bloccata, che perde la sua forza e la sua intenzionalita per il timore di che cosa possa succedere.
L’ansia è dunque un’esperienza che avviene nel corpo nel presente ma che nasce da uno spostamento nel futuro.
Le chiavi per vivere l’ansia trasformandola in azione sono due: respirare e desiderare.
Respirando ci radichiamo nel qui e ora e sosteniamo l’energia del corpo nel movimento e nella sua flessibilità.
Desiderare significa essere lontano dalla stella, e la parola desiderio indica l’energia impiegata nel raggiungerla questa stella, espressione dunque dell’intenzionalità di godersi e vivere la gara. Desiderare qualcosa consente di muoverci e di assumerci la responsabilità di questo movimento.
Desiderare una gara ci permette di stare nel processo, di muoverci nell’ambiente, di modificarlo, di modificarci continuamente e di assumerci la responsabilità di quello che facciamo, della gara che creiamo nel qui e ora.
Desiderare è molto diverso dal dover fare il quale indica una regola, un dogma che sostiene la prova sul palco perchè pone uno standard da raggiungere, favorendo quindi l’emergere dell’ansia.
Alcuni allenatori o atleti mi chiedono come si fa a motivare i propri atleti o se stessi. La risposta è che non è possibile. La motivazione, il piacere legato al processo dell’azione è strettamente collegato a quanto si è in contatto con il proprio desiderio. Desiderare permette di sentire il piacere nel viaggio che porta verso la stella, senza interessarsi a quanto sia lontana perchè il bello è gia nel cammino, non nell’arrivo. Per noi atleti permetterci di vivere la paura e il desiderio della gara ci rende maggiormente liberi di agire in modo fluido ed efficace, di godere prima e durante la performance, non solo al momento del risultato, perchè motivazione e desiderio partono da dentro, e si esprimono in un’azione che incarna tali sentimenti.
Photo by Felipe Giacometti