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Non mi aspetto che il lettore ci caschi. L’alternativa bilingue (!) al titolo che avrei dovuto invece usare (Attenzione allo storytelling, coach!) è solo un omaggio a una locuzione latina che fa tanto casa di campagna. Che ci ricorda come anche i migliori amici (i cani) possano essere pericolosi, a seconda della posizione che abbiamo – al di qua o al di là – del cancello su cui campeggia la scritta. In realtà so bene che lo storytelling oggi è un totem, e non ne disconosco l’importanza. Ma, da buon cane da tartufo, abituato ad annusare i bias cognitivi dentro ai terreni più insospettabili, ribadisco: attenti al potere dello storytelling. Specialmente se siete coach.
Mi spiego.
Sappiamo da tempo che il nostro cervello è una straordinaria macchina per estrarre senso, a partire da milioni di dati grezzi (pattern recognition), o al contrario da poche informazioni talora incorrelate. Anche quando la nostra costruzione di senso non ha tanto senso. In fondo, siamo gli stessi che, nella preistoria, vedevano nei puntini luminosi del cielo notturno eroi ed animali; e millenni dopo continuiamo a riconoscerli, in quello diurno, nelle nuvole di passaggio. Siamo cacciatori di pattern a tutti i costi, reali o immaginari che siano. Michael Gazzaniga colloca questa insopprimibile capacità in un modulo dell’emisfero cerebrale sinistro, che chiama appropriatamente “l’interprete”. Suo è infatti il compito di raccogliere tutti gli input dal mondo esterno e interno, ed elaborare, a partire da essi, una narrativa coerente.
Aggiungete la dimensione temporale, e dai pattern passate alle storie. Di storie letterariamente, e letteralmente, viviamo. Attraverso le storie diamo un senso a quel flusso disordinato e incessante che è la percezione del mondo. E di esse ci serviamo per trasmettere più efficacemente concetti e relazioni di qualche complessità. È anche per questo che non siamo in grado di resistere al potere persuasivo di una buona storia, specie se raccontata da una fonte cui attribuiamo credibilità.
E proprio qui sta il punto. Finché usiamo le storie come strumento di persuasione, e siamo consapevoli di avere in mano un’arma impropria, poco male. Nell’attività di coaching c’è certamente spazio per un uso “retorico” e comunicativo dello storytelling. Ma le cose si complicano nel momento in cui ci dimentichiamo di questa sua specifica natura strumentale; o finiamo con l’aspettarci troppo dalle storie. Quando in particolare le usiamo come strumenti conoscitivi. Quando cominciamo a pensare che la storia rappresenti la realtà. Che la mappa sia il territorio.
Quando costruisco – consapevolmente o meno – una storia per dare senso a una situazione, mi sto cimentando in un’operazione da “pista cifrata”. Uso alcuni punti (una serie di fatti) e, come nella Settimana Enigmistica, li congiungo a formare una figura compiuta (una storia dotata di senso). Nel gioco, naturalmente, c’è il trucco. L’autore conosce già il risultato finale, e parte dalla figura desiderata campionandola in una serie di punti significativi, che numera poi in modo progressivo per guidarne la ricostruzione. Inoltre, i puntini essenziali alla definizione del profilo ci sono tutti, mentre quelli che rappresentano dettagli sono in genere accuratamente evitati. Ma nella vita reale noi non conosciamo a priori la silhouette finale – la spiegazione reale. Spesso ci mancano alcuni puntini essenziali, mentre siamo distratti da altri ininfluenti ma distraenti. Figuriamoci poi se qualcuno ha pensato di indicarci l’ordine in cui essi devono essere collegati.
In termini matematici, un problema come questo si dice sottodeterminato. Esistono cioè svariate – al limite infinite – figure che possono unire quei puntini. Ci sono molte storie, diverse tra loro, compatibili con gli stessi fatti. O, detto altrimenti, una qualunque serie di fatti non ammette mai un’unica spiegazione. Come faccio a sapere se la nostra storia è quella giusta?
Di fronte a una tale complessità, ci accontentiamo spesso di una storia che unisce alcuni di quei punti (scelti con una certa arbitrarietà), e che suoni convincente. O che ci ricordi qualcosa. Oppure che faccia risuonare qualcosa nella nostra esperienza. Sostituiamo cioè, inconsapevolmente, una domanda complessa e difficile (qual è davvero la situazione?) con una sicuramente più maneggevole, ma ipersemplificata (questa storia mi sembra verosimile?). Un meccanismo molto comune nei bias cognitivi, favorito dalla pigrizia innata del nostro sistema controllato e dall’iperattività di quello automatico.
Una volta messo il piede in questo tombino concettuale, non è facile uscirne. La nostra attenzione perde presa sulla realtà, e si concentra sulla storia. E, dall’interno della buca, la visuale globale è ridotta. Accade anche con altri strumenti linguistici e concettuali che usiamo per comprendere il mondo: similitudini, analogie, metafore, modelli interpretativi. Per loro natura, essi tendono a focalizzarci sugli elementi di somiglianza con la realtà, distogliendo l’attenzione dalle pur importanti differenze.
Ma le storie… quelle sono ancora più insidiose. Perché, come abbiamo detto, costituiscono la trama delle nostre vite. Ma anche perché le storie che funzionano meglio – quelle che dunque ci catturano più facilmente – non sono una creta che si plasma prendendo la forma della realtà che vorrebbero descrivere. Al contrario, hanno una struttura dalle regole piuttosto definite, che includono la presenza dell’eroe, l’esistenza di un obiettivo importante, la presenza di ostacoli da superare con difficoltà, e così via. Persino le storie di business seguono questo impianto – come testimoniano i best-seller agiografici da Jack Welch a Steve Jobs.
Il problema è che raramente le situazioni reali seguono queste regole. Sono più, come dire, realistiche. Ma quando, a fronte di una realtà prosaica, magari deludente, ci si propone una narrativa convincente, non c’è gara. Le storie sono il nostro letto di Procuste per la realtà. Così nascono le distorsioni tipiche della vocazione eroica dello storytelling: il protagonista su cui convergono meriti (e colpe) degli avvenimenti, la svalutazione del contributo di colleghi e comprimari. Per non parlare della minimizzazione del sempre fondamentale Fattore Q.
Uno dirà: non siamo mica così ingenui e disarmati. Una delle cose che ci sono state insegnate – purtroppo non dalle scuole – è di non prendere a valore facciale quello che vediamo. Che bisogna verificare le affermazioni. Il fact-checking è arrivato persino negli spot televisivi, come antidoto alle pervasive fake-news (che in realtà sono fake-stories assai più che fake-facts).
Magari fosse così semplice. Quando anche abbiamo verificato i fatti, come dicevamo, per quegli stessi fatti verificati passano molte storie alternative; distinguere quella migliore è la vera sfida. Lo story-checking è qualcosa di profondamente diverso dal fact-checking: richiede un armamentario assai più sofisticato di tipo concettuale e probabilistico; sempre ammesso che abbiamo il tempo e la motivazione per affrontare un processo così complesso.
E qui arriva la vera cattiva notizia: perché, per nostra natura, non abbiamo nessuna voglia di cercare di demolire una storia che ci ha catturato.
La base concettuale di questa sciagurata disposizione si chiama confirmation bias. Detta in soldoni, davanti a ogni nostra convinzione, profonda o meno – ma anche davanti a semplici preferenze, opinioni vaghe o simpatie – non pensiamo neanche lontanamente di cercare dati o fatti che possano metterla in discussione, come un sano atteggiamento scientifico suggerirebbe di fare. Al contrario, impieghiamo le nostre energie ad affastellare fatti su fatti che corroborino le nostre posizioni. E non solo quando siamo in presenza di altri: ma anche quando siamo nella solitudine dei nostri pensieri.
Questo bias, che aleggia nella nostra cultura almeno dai tempi di Popper, è tra le attitudini meglio documentate delle scienze cognitive, e ha tre caratteristiche che lo rendono particolarmente insidioso.
- Primo: è facilissimo individuarlo negli altri. L’immagine del collega che si arrampica sugli specchi pur di dimostrare le proprie tesi è esperienza quasi quotidiana di ciascuno.
- Secondo: è praticamente impossibile riconoscerlo in noi stessi. Noi? Non scherziamo (è una specie di bias dei bias: i bias esistono, ma riguardano gli altri).
- Corollario: siamo tutti vittime del confirmation bias. E ci sono ben poche strategie per salvarci.
Perché siamo fatti così? Alcuni sostengono che, per un animale profondamente dipendente dai suoi simili come l’uomo, convincere gli altri sia più vantaggioso dal punto di vista evolutivo che rappresentare fedelmente la realtà. Avremmo dunque una mente più retorica che filosofica nel senso etimologico dei termini. A me sembra più realistica l’ipotesi che il confirmation bias sia parte di una sorta di sistema immunitario psicologico, una serie di routine che scattano per difendere l’immagine che di noi stessi presentiamo agli altri – e ancor più a noi stessi.
Come che sia, possiamo riassumere quanto detto in questo modo:
- una buona storia ci cattura profondamente
- il confirmation bias, o pensiero confermativo, ci impedisce, intelligenza o meno, di valutare criticamente una storia che abbiamo comprato.
E i coach?
Non sono del mestiere, ma provo a immaginarmi una scena (attenzione, sto usando anch’io un po’ di storytelling).
“La mia carriera, in questa azienda, è finita davvero in un vicolo cieco”. La donna seduta davanti a voi sintetizza così il suo percorso lavorativo. “Credo di avere imboccato una strada che non porta da nessuna parte. E ora non c’è altra via che tornare indietro. Accelerare il passo è inutile; piuttosto cambiare ruolo o, forse, scegliere un’altra direzione, magari in un’azienda diversa …”. La donna ripercorre i suoi passi, sottolineando che il suo è stato un percorso accidentato, pieno di inciampi e biforcazioni. Ma l’ultimo bivio l’ha condotta in una strada senza uscita.
Ecco qualche considerazione che quanto detto potrebbe suggerire.
1. Cominciate a notare che le parole e le immagini che vi vengono offerte non sono casuali. C’è una presenza preponderante di riferimenti all’idea di percorso, di viaggio, di strada (tutti quelli evidenziati in corsivo). Quella che vi viene proposta è una narrazione tutta incentrata su una metafora, quella di una carriera professionale come strada da percorrere. Una metafora è un modo molto efficace di trasmettere un’idea complessa (la propria visione della carriera) attraverso un’esperienza comune all’interlocutore, più semplice e meglio conosciuta; spesso più facilmente oggettivabile ed esplorabile. Ma è anche una trappola mentale; se accettata da entrambe le parti chiude la conversazione entro i limiti del modello, accentuando l’importanza degli elementi comuni della metafora, e tagliando fuori quelli che non rappresentano omologie. Portarla alla luce, o, quando necessario, rifiutarla, può essere utile ad aprire il quadro mentale del coachee, e introdurre temi che resterebbero altrimenti fuori dal campo cognitivo.
2. Riconoscete gli elementi di una storia, o almeno di un inizio di storia: l’eroe, gli obiettivi, le difficoltà, ecc. Può essere una storia appositamente confezionata per voi – non sempre si è disposti ad aprire le proprie narrazioni intime. Oppure, se siete più fortunati, state ascoltando la storia che il coachee si racconta da tempo. Saperlo fa tutta la differenza del mondo.
3. Fate pure il vostro fact-checking sulla base di ciò che sapete da informazioni addizionali, o dall’organizzazione. Ma non attribuitegli valore informazionale; prendetelo piuttosto come una verifica formale. Non sono i puntini che dovete controllare, ma la figura che li congiunge.
4. Qualunque sia la storia, sopprimete l’istinto di comprarla. Non lasciate che il vostro interlocutore scateni il gioco tipico del confirmation bias: aggiungere ragione su ragione ex-post per corroborare la storia. Tanto meno partecipate alla gara aggiungendo conferme di vostro pugno. Quando il confirmation bias viene giocato in gruppo sulle stesse tesi argomentative, ricorda alcuni giochi dell’analisi transazionale, e produce group-think: non porta da nessuna parte, se non a una gratificazione reciproca.
5. Concentratevi sulla “pista cifrata”: il vostro miglior contributo è quello di congiungere i puntini in modo diverso da come vi ha proposto il coachee. Più alternative offrite, più offrite evidenza che il suo modo di interpretare la situazione è solo uno dei possibili. Anche se le vostre storie alternative sono sbagliate, il processo di distanziamento dalle vecchie interpretazioni potrebbe comunque avviarsi.
6. Non innamoratevi delle vostre storie alternative. Il confirmation bias vale anche per voi.