Una relazione di coaching produce uno schema di gioco tra i ruoli in campo, che è la risultante delle mappe individuali; quindi di convinzioni, emozioni e  comportamenti degli e tra gli interlocutoriQuando c’è un’impasse è spesso dovuta ad una sorta di angolo cieco del coach, che proprio per questo può trovarsi in difficoltà, in quanto la dinamica relazionale può stimolare qualcosa di personale poco consapevole.

 

Il coaching spesso attinge i suoi strumenti, a partire dal come porre domande, da una provata pratica clinica di una o più scuole (ad esempio cognitiva, sistemica, transazionale etc.)

Si è finora poco esplorata la supervisione come strumento di questa professione, ma secondo l’approccio sistemico è utile avere la possibilità di un’osservazione di un livello esterno alla relazione: per avere accesso, come dice Antonio Caruso, ad “un’altra visione”, rispetto a quella che ci sta orientando nel ruolo di coach: ad una super-visione appunto.

 

A cosa serve la supervisione?

  • a contenere l’ansia che può emergere di fronte ad una difficoltà
  • a rendere consapevoli degli aspetti interferenti della propria mappa mentale (convinzioni limitanti, presupposti disfunzionali, proiezioni etc.)
  • a mettere in luce aspetti/risorse/ capacità proprie e/o del coachee da valorizzare
  • a verificare il proprio approccio in termini di empatia, tenuta di ruolo e gestione dei confini
  • a cogliere possibilità diverse e integrabili di intervento
  • a mantenersi aggiornati sui molteplici strumenti di intervento emergenti

In sintesi, anche in assenza di difficoltà, serve a continuare ad apprendere dalla esperienza propria e altrui, quindi a potenziare la propria competenza, tramite una riflessione condivisa, acquisendo più flessibilità e padronanza nella gestione del lavoro.

 

Quali modalità si possono adottare?

La supervisione è una pratica in vigore dagli inizi del 1900, che ha avuto fasi e modalità diverse nel tempo: di fondo si può attuare in forma individuale o in gruppo.

Quella in gruppo a sua volta si può tradurre in un confronto o con un professionista più esperto, come quella individuale, oppure tra pari, che per questo, spesso viene definita “intervisione”.

 

Come si lavora?

Serve stabilire un setting, quindi concordare obiettivi e modalità che o discendono dall’approccio del supervisore o si definiscono tra gli interlocutori.

Stante che attualmente la tecnologia consente di farlo agilmente anche a distanza, in genere ha una durata di 2 ore in cui chi chiede un contributo propone un caso in modo strutturato (più raramente si riesce ad usare anche una registrazione)  rispetto a cui il supervisore (o un collega) induce con domande,  feed back guidati da un tratto empatico ed eventuali proposte di contenuti professionali (modelli, ipotesi, strumenti di intervento) l’emergere di un nuovo punto di vista sulla situazione, una più ampia consapevolezza  sia della dinamica relazionale che dell’approccio del coach e l’individuazione di una linea di lavoro convincente.

E’ quindi una pratica professionale che produce crescita professionale e sicurezza emotiva per il coach e una maggiore qualità del processo di coaching per chi ne fruisce.

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Di Marisa Vecchi

Psicologa del lavoro, esperta nelle attività di valutazione e sviluppo delle competenze, specializzata nell’attivare processi di apprendimento sia con tecniche formative sia mediante action learning. Progetta percorsi di Executive Coaching. Esperta di PNL, certificata trainer’s trainer da Robert Diltz, autrice di articoli pubblicati sulle associazioni di riferimento HR italiane, e di contributi a “Valutare il potenziale” Ed IPSOA, e “Business, strategie, competenze” Ed. Guerini, e “Strutture del successo” Ed. Ledizioni.